Scritti vari (Ardigò)/Discorsi/Giuseppe Garibaldi
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È morto!
Corre la voce per tutta Italia; si ripete per tutta Europa; arriva alle Americhe lontane e vi si diffonde dall’uno all’altro polo; più presto o più tardi non resterà angolo per quanto remoto della terra che non l’abbia udita.
E non è una voce che passi e subito svanisca. Suona ancor oggi così viva come il primo giorno: e sarà lo stesso da qui a un anno; e fino all’ultima ora della nostra vita. E dal nostro labbro l’udirà la prossima generazione, che la trasmetterà alle successive.
Alle successive: alle quali giungerà come un’eco indefinita di una storia maravigliosa del passato.
Quale figura!
I lunghi anni delle dominazioni straniere ridestarono negli Italiani fierissimamente il nobile disdegno della schiavitù, il disdegno di un’intera nazione si accentrò, come nel punto più vivo d’irradiazione, nel petto di un eroe, nell’anima di Garibaldi.
Scoppiò l’ira il dì della riscossa, e le spade, a mille a mille, si levarono contro gli oppressori. Davanti a tutte balenò la spada di Garibaldi, e segnò col suo lampo la via al combattimento e alla vittoria.
Ma è la nostra un’era di civiltà; e non si corre all’armi per sete selvaggia di sangue, per odio barbaro di razza. Umani son fatti gli animi nostri, e il ferro micidiale, vôlto solo a difesa del diritto, si spezza, soddisfatta la giustizia, e si converte negli usi benefici della pace; e sopravvive più vivo e sereno il sentimento della fratellanza universale. Umani son fatti gli animi nostri: Garibaldi più umano di tutti, il suo animo fu un tesoro inesauribile di amore e di benevolenza. Fu un leone nell’assalire la prepotente ingiustizia; fu un agnello in mezzo ai liberi, coi quali non volle essere mai se non eguale. Paladino sublime dell’onestà, offerse la sua vita indifferentemente con sacrificio volonteroso pei connazionali come per gli stranieri, per chi stette sempre al suo fianco come per chi una volta brandì l’arme incontro a lui.
Noi sentiamo di essere un popolo nato per la libertà; e vogliamo liberi ordinamenti. Questo sentimento della libertà fu in Garibaldi di una potenza così gigantesca, che al suo aspetto si incorarono i titubanti, si accesero di entusiasmo irresistibile i generosi, si impaurirono, ristettero, e si sgominarono i retrivi e i prepotenti.
Nascemmo legati mani e piedi nei lacci secolari della superstizione. La scienza ce ne fece vergognare: e crebbero i nostri sforzi per romperli e per ricostruire il regno della ragione sulle rovine di una chiesa, che la rinnega oscenamente e la combatte. Anche qui Garibaldi fu a capo della nuova generazione. Egli il primo nella schiera d’azione del libero pensiero. Nulla di più terribile de’ suoi anatemi contro il gran nemico del Vaticano. I fulmini imbelli di questo cadono innocui e derisi: quelli invece l’hanno colpito a morte.
Ma nulla è ancora l’indipendenza dallo straniero, la libertà e l’uguaglianza di ogni cittadino nel proprio paese, l’impero incontrastato della ragione sulle coscienze, se ad ogni onesto non è assicurato il pane quotidiano, nella giusta ragione di un lavoro nè ignobile nè eccessivo, che non gli sia dato per elemosina, ma per diritto di essere un uomo della stessa natura di tutti gli altri coi quali ha comune l’esistenza. Questo noi professiamo perchè ci sentiamo viscere d’uomini: ed è perciò che ci esaltiamo fino al furore dell’entusiasmo all’aspetto dei nostro grande vendicator delle plebi, del quale il sentimento umanitario forma precisamente l’aureola più santa e divinizzante.
Quale figura!
La sua sublimità sta in questo, che la nazione italiana, dirò anzi l’intera umanità presente, vede in Lui l’incarnazione più compiuta e perfetta degli ideali, onde più fortemente si commuovono i nostri cuori e si esalta la nostra immaginazione. Nella quale sopravviverà, come cosa eternamente viva, al fato miserabile della distruzione e dell’oblio.
L’uomo comune muore alla sua ora. Una fossa lo accoglie. La terra ne ricopre le spoglie infracidite, e con esse la ricordanza di pochi conoscenti. Come, caduta una foglia d’autunno, la calpesta il viandante e l’affonda nella polvere della via.
Non così Garibaldi. Non il sepolcro, ma il tempio dei nostri cuori è il ricettacolo della sua dimora dopo il momento fatale. Finchè batteranno cuori di uomini brillerà nel loro pensiero la luce della sua faccia, suonerà la voce della sua parola.
Quale figura!
Lo vedo togliersi improvviso ai trionfi delle vinte battaglie, agli applausi delle moltitudini fanatizzate, allo splendore di una posizione sovrana non mai tanto giustamente guadagnata: e cercare, sdegnoso de’ doni altrui, pago sol di se stesso, la solitudine del mare.
Lo vedo esigliarsi tranquillo in una isoletta, in una casuccia, in mezzo alla sua famigliuola.
Lo vedo in questo punto perduto del mediterraneo salire uno scoglio sporgente sull’onde. E assidersi sovr’esso, fisso l’occhio scintillante sul l’ampio cielo, intanto che il vento sibila intorno e i marosi sì infrangono spumeggianti a’ suoi piedi. E mi domando. Che fa quell’uomo immobile le lunghe ore in quell’ultimo sito? E rispondo: È un uomo che pensa. Nel tramestio delle grandi città si agita la gente, corre, mai non si ferma: ma più lavora di mani e di piedi e più la mente è lenta e si muove appena nell’ozioso e monotono ritorno delle frivolezze più inconcludenti. Quell’uomo sta come il masso su cui è posato, ma il suo pensiero si travolge grandeggiaste in un turbine incessante di idee sublimi, in una tempesta faticosa di affetti magnanimi. Pensa al passato d’Italia, pensa a noi; pensa al nostro avvenire.
Lo vedo io, lo vedete voi, lo vediamo tutti, come se vivesse ancora. E da lui aspettiamo i cenni. Li aspettiamo perchè siamo tutti garibaldini. Molto ancora è da fare per compiere le giustizie profetizzate da quel genio unico del bene. Ci guardi con quegli occhi, che ci elettrizzano e possono far di noi tanti piccoli eroi; alzi la destra a darci il segnale; e sorgeremo come un sol uomo.
Sorgeremo gridando: Viva Garibaldi: e nessuno potrà arrestare l’impeto di un popolo tocco dalla magia di questo nome.
Note
- ↑ Discorso commemorativo pronunciato sul Monumento dei Martiri il 5 giugno 1882 in piazza Sordello, - Dal giornale Il Mincio, 11 giugno 1882.