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Discorsi | 179 |
ragione di un lavoro nè ignobile nè eccessivo, che non gli sia dato per elemosina, ma per diritto di essere un uomo della stessa natura di tutti gli altri coi quali ha comune l’esistenza. Questo noi professiamo perchè ci sentiamo viscere d’uomini: ed è perciò che ci esaltiamo fino al furore dell’entusiasmo all’aspetto dei nostro grande vendicator delle plebi, del quale il sentimento umanitario forma precisamente l’aureola più santa e divinizzante.
Quale figura!
La sua sublimità sta in questo, che la nazione italiana, dirò anzi l’intera umanità presente, vede in Lui l’incarnazione più compiuta e perfetta degli ideali, onde più fortemente si commuovono i nostri cuori e si esalta la nostra immaginazione. Nella quale sopravviverà, come cosa eternamente viva, al fato miserabile della distruzione e dell’oblio.
L’uomo comune muore alla sua ora. Una fossa lo accoglie. La terra ne ricopre le spoglie infracidite, e con esse la ricordanza di pochi conoscenti. Come, caduta una foglia d’autunno, la calpesta il viandante e l’affonda nella polvere della via.
Non così Garibaldi. Non il sepolcro, ma il tempio dei nostri cuori è il ricettacolo della sua dimora dopo il momento fatale. Finchè batteranno cuori di uomini brillerà nel loro pensiero la luce della sua faccia, suonerà la voce della sua parola.
Quale figura!
Lo vedo togliersi improvviso ai trionfi delle vinte battaglie, agli applausi delle moltitudini fanatizzate, allo splendore di una posizione sovrana non mai tanto giustamente guadagnata: e cercare, sdegnoso de’ doni altrui, pago sol di se stesso, la solitudine del mare.
Lo vedo esigliarsi tranquillo in una isoletta, in una casuccia, in mezzo alla sua famigliuola.
Lo vedo in questo punto perduto del mediterraneo