Scritti sulla storia della astronomia antica - Volume II/III. - Appendice - Rassegne bibliografiche, traduzioni/XV. - Cenno dei recenti studi del d.r Cantor sulla Storia dell'Agrimensura
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | III. - Appendice - Rassegne bibliografiche, traduzioni | III. - Appendice - Rassegne bibliografiche, traduzioni - XVI. - Sulla nuova Storia delle Matematiche pubblicata dal prof. M. Cantor | ► |
XV.
CENNO DEI RECENTI STUDI DEL D.R CANTOR
SULLA STORIA DELL’AGRIMENSURA
Dai Rendiconti del Reale Istituto Lombardo, Serie II, Vol. IX, Milano, 1876. (Letto nell’adunanza del 13 gennaio 1876).
Il dottor Maurizio Cantor, uno dei redattori del giornale matematico e fisico di Lipsia, ha fatto omaggio a questo Reale Istituto di una sua recente opera sull’agrimensura degli antichi, ed in particolare sull’agrimensura dei Romani1. Avendo avuto occasione di esaminare con qualche cura questo libro, mi è desso sembrato degno di molta attenzione: prima per l’accurata e solida erudizione che vi si contiene, quale poteva aspettarsi dall’autore di altra opera assai lodata sopra argomenti connessi colla storia delle matematiche2; poi ancora per l’importanza delle questioni che vi sono sviluppate e spesso risolute con felice criterio: da ultimo e sovratutto per l’interesse generale che si collega con alcune fra le ricerche dell’autore, delle quali i risultamenti meritano di esser conosciuti da tutti quelli, per cui lo studio dei progressi della coltura umana ha qualche attrattiva. Ho dunque creduto che potesse esser gradita all’Istituto una breve esposizione delle cose principali contenute in questo libro.
Alcuno potrà dubitare che molto interesse possa trovarsi nella storia della più semplice e della più elementare fra le applicazioni delle matematiche, qual è la misura dei terreni; e non potrà credere che molta luce sia per scaturire dallo studio degli agrimensori romani. Eccellenti, pratici e valorosi ingegneri erano questi senza dubbio, e il suolo della nostra penisola porta ancora impresse evidenti e profonde tracce dei loro vastissimi lavori di divisione agraria3. Ma nei frammenti dei loro scritti, che alla meglio ordinati costituiscono la collezione intitolata Gromatici veteres, e della cui restituzione si resero benemeriti specialmente Lachmann, Blume, Rudorff e Mommsen4, nè lo storico delle lettere latine, nè quello delle matematiche avean finora trovato materia molto degna della loro considerazione. Eppure questo fango cela le sue pagliuzze d’oro, le quali possono guidare con sicurezza alla fonte primitiva da cui gli agrimensori hanno derivato le loro pratiche, per lo più senza intenderne il fondamento teoretico, anzi talora corrompendo ciò che non intendevano. Io dico anzi, che col tramandarci le loro regole empiriche, e qualche volta affatto false, gli agrimensori hanno reso a noi maggior servizio di quello che avrebbero fatto coll’adottare nei loro scritti la geometria più accurata d’Euclide o d’Archimede. La verità matematica infatti è una sola, e il trovarla in più luoghi e in più tempi diversi, spesso non indica altro se non che la logica geometrica è da per tutto la stessa. Ma l’errore e l’empirismo sono di loro natura mutabili e convenzionali; una regola falsa e bizzarra, trovata in due luoghi molti distanti o in epoche divise da intervallo di molti secoli, può spandere lume inatteso su relazioni dapprima neppur sospettate.
Ecco dunque come anche lo studio dei gromatici può servire a qualche cosa per rischiarare il cammino della scienza nella serie dei tempi. Ma il libro del Cantor non è limitato soltanto ad essi. Al dotto autore i gromatici non servono che come base di un lavoro critico e storico, in cui, dalle tenebre dell’antichità egiziana, si seguono passo passo le tradizioni agrimensorie fino al risorgimento delle scienze e delle lettere in Occidente. Vi si scorge qual forza di conservazione abbiano le nozioni di scienza applicata, quando una volta dall’altezza delle scuole abbiano potuto penetrare negli strati popolari, anche a costo di essere svisate e corrotte. In questo mezzo conservatore di miti, di pregiudizi e di usanze avviene talora al critico di riconoscere, ridotti allo stato di fossili, od anzi di conglomerati, ma pur in qualche modo preservati dalla distruzione, avanzi interessanti dei secoli luminosi dell’antica coltura, i quali si credevano perduti intieramente. L’inventario di ciò che l’antichità ci ha lasciato in fatto di nozioni scientifiche non è ancora completo; molte restano a scoprire e a disseppellire dalla polvere e dal rottame, che una serie di secoli vi ha sopra accumulato. È questa un’opera difficile e di molta pazienza, cui negli ultimi decenni hanno consecrato le loro veglie vari eruditi, fra i quali, non ultimo, è il nostro autore. L’esposizione di alcuni fatti più salienti contenuti nel suo libro servirà d’illustrazione a quanto si è detto poc’anzi.
Esiste nel Museo britannico un antico papiro egiziano, che dal suo contenuto e dal nome di un suo precedente possessore è appellato il papiro matematico Rhind. Il suo titolo è tradotto cosi: «Principi per conoscere le grandezze delle cose e per svelare tutti i segreti che stanno nella natura delle medesime». Il dotto egittologo dottor Augusto Eisenlohr, che ne sta preparando la pubblicazione, lo crede copiato circa diciassette secoli prima di Cristo da altro anterior manoscritto di epoca sconosciuta. Contiene una serie di problemi riferentisi alle aree di certe figure piane ed al volume di certi solidi. Le soluzioni non sono date in termini generali, ma costantemente sono esemplificate sopra certi dati numerici. In tal modo sono esposte le regole per trovare la superficie di diverse specie di triangoli e di quadrilateri, dell’esagono regolare, del circolo, ed il volume di una classe di piramidi, oltre a questioni d’un altro genere, che sembrano implicare l’uso di equazioni algebriche di primo grado. Le notizie pubblicate dal Cantor sul contenuto di questo papiro non sono complete quanto egli le avrebbe potute dare, ove un giusto riguardo per il traduttore Eisenlohr non ne l’avesse impedito. Tuttavia, dalle notizie già pubblicate per cura dello stesso Eisenlohr, e da quelle che già prima avea pubblicato sullo stesso papiro il Birch, qualche dato interessante si può ricavare. Anzitutto è da notare che l’area del circolo è ottenuta nel papiro col quadrare una linea uguale a del diametro, ciò che equivale a supporre , approssimazione certamente non dispregevole, e che sembra derivata piuttosto dall’idea di formare un quadrato equivalente al circolo, anzi che da quella di rettificarne la circonferenza. L’area del triangolo isoscele è supposta uguale al prodotto del lato per uua metà della base; e l’area del trapezio simmetrico a basi parellele è supposta uguale al prodotto di uno dei lati non paralleli per la semisomma delle basi. Queste regole noi sappiamo che sono false generalmente. Esse sono approssimativamente valevoli soltanto quando la base del triangolo e le due basi del trapezio sono molto piccole rispetto ai lati delle rispettive figure; in altri termini, quando in queste figure la larghezza è molto minore dell’altezza. Forse tali condizioni saranno state adempite in una certa misura nella disposizione ordinaria adottata per le parcelle di terreno. Che che sia di questo, tali regole così imperfette pare siano rimaste per molti secoli come canone invariabile dell’agrimensura egiziana, poichè esse si trovano messe in pratica in un altro documento egiziano anteriore appena di un secolo all’èra cristiana. Intendo parlare di una iscrizione geroglifica scolpita sul muro esterno del tempio di Oro nella città di Apollinopoli grande, oggi detta Edfu, nell’alto Egitto sopra Tebe. Tale iscrizione, o piuttosto complesso d’iscrizioni, è stato studiato da Lepsius nelle memorie dell’Accademia di Berlino del 1855, e contiene null’altro che l’enumerazione simultanea dei lati e delle aree di 52 parcelle per lo più quadrilatere di terreno, donate in varie epoche al tempio come fondazioni pie di diversi re. Alcune parcelle triangolari sono designate come quadrilateri, di cui un lato è uguale a zero. Ora, confrontando i lati di ciascuna figura coll’area corrispondente, si trova che per tutte quelle figure, che sono quadrilateri d’ogni forma, l’area assegnata è stata ottenuta facendo il prodotto delle semisomme dei lati opposti; le regole del papiro Rhind sono evidentemente casi particolari di questa. Lepsius veramente cerca, con una spiegazione artifiziosa, di salvare l’onore degli agrimensori, che calcolarono le parcelle del tempio d’Edfu, supponendo che i quattro numeri esprimenti le dimensioni dei quadrilateri non siano precisamente i loro lati. Tuttavia il solo fatto, che quei geodeti credevano di determinare l’area di un quadrilatero con quattro soli elementi, basta a convincerci della loro ignoranza delle cose di geometria, quand’anche il parallelismo offerto dal papiro Rhind non attestasse formalmente contro l’interpretazione benigna di Lepsius. Bensì a loro parziale discolpa dobbiamo dire, che la maggior parte delle parcelle d’Edfu sono quadrilatere, di figura molto allungata, e con angoli poco diversi dal retto; onde l’errore risultante dai loro calcoli in pochi casi è di sensibile importanza.
Queste pratiche grossolane degli agrimensori egiziani, di cui il papiro Rhind e l’iscrizione di Edfu mostrano la conservazione durante un intervallo di forse 16 secoli, non erano destinate tuttavia a perire, malgrado la loro intrinseca imperfezione. Esse dovettero forse eclissarsi un momento al cospetto della luce irradiata dalle scuole dei geometri d’Alessandria. Nella stessa epoca infatti, in cui i sacerdoti egiziani scrivevano le loro empiriche quadrature sui muri del tempio d’Edfu, uno dei più celebri matematici dell’antichità, Erone Alessandrino, scriveva ad uso dei pratici, sembra per ordine dei Tolomei, le sue regole geometriche e stereometriche, le quali, corrotte, mutilate ed interpolate in mille modi, giunsero a noi in varie differenti edizioni. Che Erone fosse altrettanto profondo nelle cose di teoria, quanto valente nelle cose di pratica, basta a provarlo la regola celebre da lui inventata, o per lo meno elegantemente dimostrata, con cui si ottiene l’area di un triangolo qualunque, espressa per i lati del triangolo. È questa certamente una delle più belle cose che ci siano restate della geometria dei Greci. Anche la soluzione data da Erone del problema delle due medie proporzionali è distinta per elegante semplicità. Erone poi abbracciò le applicazioni pratiche delle matematiche in tutta l’estensione che si conveniva ai suoi tempi, siccome può dedursi dal grande numero di opere da lui scritte sulla geodesia, sulla meccanica, sull’arte della guerra e sull’ottica, delle quali una parte è giunta fino a noi, e meriterebbe le cure di una nuova diligente edizione. A questa categoria di scritti appartengono pure le sue regole geometriche, le quali furono da lui compilate in forma popolare per uso dei pratici, e perchè fossero sostituite al vecchio ed imperfetto canone degli agrimensori egiziani. Prove evidenti di questo scopo ravvisa il Cantor in diverse particolarità, riguardo alle quali Erone si è scostato dalle usanze comuni agli altri geometri greci, per adattarsi alle forme allora vigenti presso i pratici del paese. Una di queste è il modo con cui sono proposte le risoluzioni dei problemi. Nel papiro Rhind queste soluzioni vengono introdotte colla formola «fa così»; e similmente la massima parte delle soluzioni di Erone contiene la formula iniziale ποιεῖ οὕτως, che è l’esatta traduzione dell’altra5. Presso Erone si trovano quasi sempre le soluzioni dei problemi esemplificate numericamente, come nel papiro, sebbene l’autore greco non sempre si contenti di questo metodo fanciullesco, e molte volte enunzi anche le regole in termini generali, esemplificandole poi in numeri. Da ultimo, il calcolo dei numeri rotti e presso Erone e nel papiro è condotto esclusivamente usando di frazioni fondamentali, cioè di tali frazioni, il cui numeratore è sempre l’unità, il denominatore un numero intero6. Tale uso, che si trova anche presso i geometri greci della scuola d’Alessandria, sembra abbia la sua radice nei più remoti secoli dell’antichità egiziana.
L’opera di Erone diventò ben presto il codice fondamentale dei geometri pratici, e tanto più, quanto che sembra che ad essa fosse unita una breve trattazione dei pesi e delle misure. Essa procacciò al suo autore una fama molto estesa e molto popolare, ma fu quasi per distruggerne la riputazione come geometra; perchè ove di lui quasi per caso non si fossero conservate alcune gemme geometriche, di cui ho detto poc’anzi, sarebbe stato difficile agli storici delle matematiche il ravvisare in Erone altro che un pratico di cognizioni geometriche piuttosto limitate e non affatto esenti da errore. Infatti le regole geometriche e stereometriche di Erone, conservate per successiva tradizione nelle scuole degli agrimensori, compendiate ad uso dei meno intelligenti, interpolate da uomini poco esperti della geometria pura, giunsero a noi in più redazioni diverse, alcune più, altre meno esatte; alcune più, altre meno abbreviate; il loro stato è tale, che il riconoscerne la forma primitiva, e il separare il fondo di Erone dalle posteriori modificazioni e aggiunte, sembra impresa poco meno che disperata, e certamente non possibile che alla più sottile critica scientifica e filologica insieme. Basti dire che insieme alle regole dedotte dalla geometria d’Euclide e d’Archimede, e in compagnia di problemi che suppongono nota la risoluzione delle equazioni algebriche di 2.° grado, e di altri in cui si danno tracce evidenti dell’analisi indeterminata di 1.° grado, di nuovo vediamo comparire i metodi empirici del papiro Rhind e dell’iscrizione del tempio d’Edfu pel calcolo dell’area dei triangoli e dei quadrilateri. Le regole per ottenere le aree dei poligoni regolari mostrano che il loro autore ignorava ancora la trigonometria d’Ipparco. Insieme al valore Archimedeo del numero esprimente il rapporto della circonferenza al diametro, si trova impiegato in un luogo il numero 3. Pel calcolo degli archi e dei segmenti di circolo in funzione della corda e della saetta sono date espressioni, le quali non possono essere esatte: può darsi tuttavia che Erone le abbia pubblicate per dare modo ai pratici di sciogliere approssimativamente un problema loro affatto inaccessibile per la via diretta e rigorosa.
Non mi è concesso di entrare ad esporre minutamente quanto il nostro autore discorre sull’origine dell’agrimensura presso i Romani, e sopra alcune pratiche agrimensorie di origine prettamente italica, come per esempio l’uso sistematico di coordinate rettangolari riferite ai due assi fondamentali detti il cardine e il decumano (uso che fu richiamato recentemente in vigore dal prof. Porro nel suo sistema di topografia detto Celerimensura), a cui necessariamente era connesso l’uso continuo ed universale dello squadro o groma, strumento ignoto ai geodeti della Grecia e dell’Egitto, ma che tuttavia tiene ancora un posto importante nella nostra topografia elementare, e nulla ha perduto della sua importanza nella misura dei terreni. Nell’opera stessa deve leggersi quanto riguarda le prime relazioni scientifiche dei Romani coll’Egitto. Fu in conseguenza di queste relazioni, che, nel secolo precedente la nascita di Cristo, le regole dei geodeti egiziani cominciarono ad esser insegnate in Roma. Per quanto riguarda la parte giuridica, ed anche la parte topografica dell’agrimensura, i Romani non trovarono necessario di commutare le loro pratiche di origine consacrata dalla religione e dal tempo, con quelle dei Greci e degli Egiziani: lo squadro o groma non cedette il luogo alla diottra dei Greci, più complessa, più perfetta, e non pertanto assai meno opportuna per la misura dei campi. Ma i Romani, sebbene allora, come prima e dopo, fossero affatto ignoranti di geometria, capirono tosto che fra i teoremi di Euclide alcuno ve n’era la cui diritta applicazione spesso poteva importare buone somme di moneta sonante, e quindi non farà meraviglia l’udire, come le regole di Erone trovassero in Roma un’accoglienza quale non ebbero mai le sublimi speculazioni di Apollonio e di Archimede. Con un’accurata analisi è rinscito al signor Cantor di additare negli scritti correnti sotto il nome di Erone l’origine di quasi tutte le formule agrimensorie citate nei libri dei gromatici. Uno di questi, Marco Giunio Nipso, ha riprodotto varie regole del Geometra greco in traduzione affatto letterale. Insieme alle principali regole di Erone si trovano anche esposti alcuni procedimenti astronomici per ben determinare la direzione del cardiae e del decumano, cioè della meridiana e della sua perpendicolare7, il tutto senza dimostrazione, ed in modo da lasciar vedere chiaramente, che anche qui la scienza dei Greci aveva servito di fondamento8.
Fra gli scritti dei gromatici, il più interessante per la storia delle matematiche fu ommesso nella collezione berlinese degli agrimensori romani, forse in conseguenza del punto di vista quasi esclusivamente giuridico ed archeologico, serbato dagli editori nel pubblicare quella raccolta. Lo scritto porta per nomi d’autori Aprofodito e Betrubo Rufo (Epafrodito e Vitruvio Rufo?). Cantor ne pubblica qui il testo, per la prima volta riproducendolo in forma intelligibile e nella sua integrità colla scorta di un antico manoscritto del VI o VII secolo, detto il Codice Arceriano, il quale stette fino alla fine del XV secolo nel monastero celebre di Bobbio, e dopo vari casi e mutazioni di proprietari ora si trova a Wolfenbüttel. Lo studio di questo difficile scritto ha fatto riconoscere all’autore che la sua origine risale agli scritti portanti il nome di Erone; ed ha fatto vedere che in esso si nasconde un documento finora affatto trascurato dell’algebra dei Greci. Già si è indicato, come nel papiro Rhind si trovino indizi dell’algebra di primo grado, e come negli scritti attribuiti ad Erone siano risolute questioni dipendenti da equazioni complete di 2.° grado, risolute, dico, non già con costruzioni di riga e di compasso, al modo dei greci geometri, ma colle stesse regole di calcolo che stanno simbolicamente compendiate nella formola notissima spiegata nei nostri libri d’algebra. Nel corrotto documento, di cui qui si discorre, si trovano (non già in termini generali, ma esemplificate numericamente): 1.° la formola per calcolare un numero poligonale, dato il lato; 2.° la formola inversa, per calcolare il lato, dato il numero poligonale; 3.° una formola elegante (e secondo Cantor, nuova) per trovare i numeri piramidali, dato il lato e il numero degli angoli; 4.° una formola per sommare le progressioni dei cubi dei numeri naturali. La prima di tali questioni non esce fuori dai limiti di quanto già si conosceva sull’aritmetica dei Greci. La seconda implica la risoluzione algebrica di un’equazione di secondo grado. La terza suppone conosciuta la formola per la sommazione dei quadrati dei numeri naturali, ciò che non si trova in alcun altro autore greco d’aritmetica. Egualmente ignota ai matematici greci si supponeva finora la quarta formola, cioè, la regola per la sommazione dei cubi, di cui la prima indicazione credevasi esistere presso l’astronomo indiano Brahmagupta. Ecco dunque che Diofanto non appare più come un fenomeno isolato nella storia dell’algebra dei Greci. Esistettero prima di lui e forse anche dopo di lui altri algebristi, ed altri studiosi della dottrina dei numeri, uno dei quali molto probabilmente fu Erone Alessandrino. Da lui forse, o da altro ignoto, procedono le regole conservate noi codice di Wolfenbüttel sotto mentito nome e in forma appena riconoscibile. E questo mi pare il più importante dei fatti messi in luce dalle ricerche del nostro autore. Dalla stessa fonte onde emanò la scienza dei supposti Epafrodito e Vitruvio Rufo, derivò pure una parte della geometria di Boezio9. In questa geometria, e presso uno dei gromatici10, troviamo risorta (e forse non era mai stata intieramente perduta) la regola del papiro Rhind pel calcolo dell’area del triangolo, e la formula del tempio di Edfu pel calcolo dei quadrilateri irregolari; e questi stessi procedimenti si trovano pure in una collezione di problemi attribuita ad Alcuino. Così ai tempi di Carlo Magno si ritornava al punto degli antichi Egiziani, e anche più indietro; perchè tanto il trattato de jugeribus metiundis, quanto i problemi d’Alcuino danno per la quadratura del circolo una regola, la quale equivale a ! mentre nel papiro Rhind abbiamo veduto una approssimazione affatto ragionevole, .
Cantor chiude il suo lavoro con uno studio diligente della geometria di Gerberto. Dimostra ch’egli ebbe sott’occhio i gromatici, e specialmente Epafrodito e Vitruvio Rufo, che Gerberto studiò, trovandosi abate a Bobbio, in quell’identico codice Arceriano, che ora sta a Wolfenbüttel. In Gerberto appare già un matematico di qualche valore, tenuto conto del tempo in cui visse; la sua scienza vince di gran lunga quella di tutti gli agrimensori romani. Cantor segue le tracce di Erone presso altri scrittori anche più moderni, quali sono Ermanno Contratto e Leonardo Pisano; anzi presso Giovanni Widmanno da Eger, la cui opera sul calcolo mercantile fu stampata nel 1489, e nella Margarita philosophica di Reysch, stampata la prima volta nel 1503. Il corso delle tradizioni si svolge dunque non interrotto dall’epoca dei Tutmosi e dei Ramessi fino al moderno rinascimento.
Ho tentato in questa rassegna di comunicarvi una parte dell’interesse sommo che io sento per queste penose, che altri chiama anche pedantesche, ma che a me paiono sommamente fruttuose ricerche. Forse si potrà dire con apparenza di ragione, che il succedersi delle tradizioni agrimensorie è una curiosità d’importanza secondaria nella storia dei popoli; ma io crederò sempre, che in questi studi, per quanto umile sia l’oggetto immediato delle ricerche, può scaturire, anzi deve più tardi scaturire la cognizione di fatti più grandi e più generali; come dalla presenza di poco importanti fossili in una serie di terreni può scaturire la storia di una intera formazione geologica. Da ultimo, lo studio dell’antica coltura non è ancora illuminato da tanta luce, che possa esser permesso di ricusare l’aiuto d’investigazioni simili a quelle che ora ho descritto. Chi le fa, e chi con ogni mezzo le promuove (come fra noi un nobile e dotto patrizio romano)11, merita altamente della repubblica letteraria.
Note
- ↑ Die Romischen Agrimensoren und ihre Stellung in der Geschichte der Feldmesskunst. Eine historisch-mathematische Untersuchung von D.r Moritz Cantor. Leipzig, Teubner, 1875, in-8; pp. 238.
- ↑ Alludo ai Mathematische Beiträge zum Kulturleben der Völker, von D.r Moritz Cantor. Halle, Schmidt, 1863, dove è trattata in tutta la sua ampiezza e con tutte le sue numerose ramificazioni l’origine delle cifre dette arabiche e del nostro calcolo aritmetico, e la loro diffusione in Occidente.
- ↑ Vedi gli studi di Lombardini sul reticolato delle strade e dei canali nella parte piana delle Romagne, fra Bologna e Ravenna.
- ↑ Die Schriften der Römischen Feldmesser. Vol. II Berlin, 1848-52.
- ↑ Basta, per convincersene, dare un’occhiata anche superficiale all’edizione di quest’opera di Erone, ultimamente fatta da Hultsch, Heronis Alexandrini Geometricorum et Stereometricorum Reliquiae, edidit Fr. Hultsch. Berolini, 1864.
- ↑ Sola eccezione si fa per la frazione la quale sembra sia stata adottata come notazione abbreviata di .
- ↑ Però, in mancanza di bussola, si trovò spesso conveniente di prendere ad arbitrio la direzione di questi assi, conservando soltanto la loro perpendicolarità. Veggansi le piante delle già citate colonie dei veterani romani nell’Emilia, dove il cardine è senz’altro formato dalla via Emilia.
- ↑ La regola data da Igino gromatico per trovare la direzione del meridiano colla misura di tre lunghezze dell’ombra di un gnomone, osservate nel medesimo giorno, è stata commentata e spiegata da Mollweide, nella Monatliche Corr., di Zach, vol. XXVIII, p. 396.
- ↑ Che la geometria attribuita a Boezio sia veramente sua, pare dimostrato in modo convincente dal Cantor nei Matematische Beiträge, pp. 181-198, malgrado l’opinione diversa espressa da altri eruditi.
- ↑ De jugeribus metiundis nella raccolta di Lachmann. T. I. pp. 354-356.
- ↑ Non occorre ch’io dica, che intendo qui parlare di S. E. il principe Baldassare Boncompagni, del quale gli studi ed i generosi sacrifizi hanno avuto per risultato di spandere una gran luce sulla storia delle matematiche, e specialmente dell’aritmetica e dell’algebra. Il suo giornale, intitolato: Bullettino di Bibliografia e di Storia delle scienze matematiche (di cui egli fa dono regolare al nostro Istituto), è il centro di riunione, cui fanno capo i dotti nostrali e stranieri che coltivano queste materie. Una pubblicazione paragonabile a questa non esiste presso alcun’altra nazione. Dio gli conceda di prolungarla ancora molti anni, e di mettere in luce ancora molti tesori di antica scienza che tuttora giacciono occulti!