Scritti editi e postumi/Iscrizioni e poesia/Napoleone; Frammenti
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NAPOLEONE
FRAMMENTI1
― 18...? ―
E tu cadesti, o re; ma sul tuo fato
Il silenzio non giace, onde l’umana
Plebe è coperta;
E la storia del tuo nome solenne
Coi secoli si muove.
Eri di donna
Nato, e spirto caduco in te si chiuse
Come nel volgo dei mortali, o l’alta
Armonia delle sfere alla tua creta
Trasfuse alito eterno?
Sento, che il mondo ancor geme dell’orma
Delle tue piante; – ahi! dunque in sulla terra
Non ti guidò l’amore . . . . . .
Chi misurarti
Col pensiere vorrà, se il tuo fantasma
Ratto venne, e disparve, alle atterrite
Genti mostrando
Mille faccie di tenebre e di luce?
Quand’io mi sporgo sulla tua grandezza,
Mi coglie la vertigine. Chi sei,
O crëatura del mistero? Il mondo
Forse nol saprà mai. Nume, o demonio,
Ti chiameranno incerti; – e il tuo concetto
Forse l’inferno racchiudeva, e il cielo.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Il fiore
Della vita per te crebbe solingo
E nero, ed aura nol nodria feconda,
E amor non lo guardò.
Nell’ora
Dei mesti sensi, – quando cade il Sole,
E sopra la natura si diffonde
Addolorato come il guardo estremo
D’un amico, che muor, – piangesti mai?
Il vïator, che tenta le tempeste
Dell’antico Oceáno, andrà tremante
All’Isola romita, ove il tuo Genio
Impotente si giacque, o sventurato.
E la mente commossa andrà cercando
Per l’ombre della morte il tuo fantasma,
Che scongiurato apparirà. Funesta
Luce balenerà sulle tremende
Sorti dell’uomo, e gemerà . . . .
E se mai le ridenti illusïoni
Ti rinfrescavan di fiori la fronte,
Il dolor li appassiva;
E la tua fronte, pallida, atterrita,
Trono severo d’un pensier di morte,
Cadeva a terra.
L’Aquila gloriosa,
Del cenno tuo terribile ministra,
Che tra gli artigli un dì portava il mondo,
Or s’è conversa in avvoltoio, e nido
Fa nel tuo cuore.
Lungo le deserte
Rive dell’Oceáno il mio pensiere
Scorge l’anima tua, che insegue l’ombra
D’una potenza, che passò. Delirio
Supremo d’una mente imperatrice
È il tuo delirio. A che nel dì fatale
Non ti ascondesti nel sepolcro?
Nei silenzi della notte, quando
La vision dello spirito è più chiara,
Gemi profondo, e chiudi gli occhi, e d’ambe
Le man serri gli orecchi. Oh! che intendesti?
O minacciosi vedesti agitarsi
I milioni delle anime sprecate
Nelle tue cento inutili vittorie?
Fulminato è il Titano; una ruina
Vasta cuopre un impero, e l’atterrito
Sguardo delle nazioni al ciel dimanda
E alla terra dov’è la man, che tanta
Forza prostrò. – Non fu mano creata:
Dio ti percosse . . . . .
Quanta passione ti salì nel cuore
Il dì che la Fortuna ti gridava:
– Non sei più re, Napoleon? – quel grido
Ti corse tutta l’anima eccitando
Le note più solenni del dolore.
E fu dolor, che un’anima infinita
Appena conteneva, – e a tanto peso
Non so come reggesti; – e la Follia
Forse dell’ala ti strisciò la mente,
Ma tu nascesti forte, e la superba
Testa portò il dolor come portava
Un giorno la corona.
. . . . . . . . . . . . . .
Il Guerriero morì, nè il capo stanco
Morendo abbandonò sopra gli allori,
Nè il sospiro mischiò dell’agonia
Col sospiro dei forti. Entro al silenzio
Della natura si disperse il Grande.
E solingo spirava ai giorni antichi
Catone,
allor che un fato iniquo
E una virtù, che il mondo oggi sconosce,
Di terra in terra travolgean ramingo
L’ultimo dei Romani.
Sulle arene di Libia inospitali
Venne traendo l’anima indomata;
E poichè fremer si sentì da tergo
Di Cesare il delitto e la fortuna,
Chiamò la morte, e intemerato un ferro
Si ascose nelle viscere.
Libertà d’un santo
Amplesso a lui cinse lo spirto, e insieme
Nei cieli si confusero.
E la Sventura
Parte scontò del tuo delitto, o forte,
E velò d’una lacrima il soverchio
Raggio della tua gloria: – e forse un giorno
Pellegrini verremo alla tua tomba,
Dove or siede custode la vendetta
Dei regi che tremarono, e un sospiro
Alle deserte ceneri contende.
E la Sventura eterna ha sulla terra
Una religïone, – e nel sepolcro
L’uomo non va, se prima non l’adora.
E la Dea più tremendo sacrificio
A te chiese, che agli altri; – il pianto chiese
E il servaggio dei popoli, – e tu desti
La servitù col pianto; – ed eri allora
Sacerdote e non vittima, e calcasti
La crëatura come pavimento;
E confitta per sempre la fortuna
Credesti aver sotto le piante, – e forte
Eri fra tutti i forti, e la tua spada
Simile al raggio del Pianeta eterno
Girò sull’universo. Ancor la terra
Lo scalpito rammenta del cavallo
Che ti portava alle vittorie, – e vinti
Fur tutti, – anche la patria.
Più non avesti freno
Dacchè vedesti i popoli agitati
Giuoco della tua destra; – e un riso amaro
Dei mortali ti prese, – e il firmamento
Forse afferravi col pensier profondo,
Pensier, dove fremea l’onnipotenza.
A mezzo il corso
Cadesti; e quando il tuo pensiero anelo
Si affacciava al futuro, era un’immensa
Di tenebre pianura l’avvenire.
Un’eterna
Religïone adunque ha la Sventura
Dai mortali adorata, – e un sacrificio
Più che agli altri tremendo a te chiedea,
E ti rapì la folgore di mano
Onde al suo truce simulacro un mondo
Immolavi, e la forza ti fugava
Dal braccio onde squassasti un dì la vita
Delle nazioni. Uomo tornasti, e tutta
Sentisti l’umiltà di nostre sorti.