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    Il Guerriero morì, nè il capo stanco
    Morendo abbandonò sopra gli allori,
    Nè il sospiro mischiò dell’agonia
    Col sospiro dei forti. Entro al silenzio
    Della natura si disperse il Grande.
    E solingo spirava ai giorni antichi
    Catone,
                allor che un fato iniquo
    E una virtù, che il mondo oggi sconosce,
    Di terra in terra travolgean ramingo
    L’ultimo dei Romani.
    Sulle arene di Libia inospitali
    Venne traendo l’anima indomata;
    E poichè fremer si sentì da tergo
    Di Cesare il delitto e la fortuna,
    Chiamò la morte, e intemerato un ferro
    Si ascose nelle viscere.
                    Libertà d’un santo
    Amplesso a lui cinse lo spirto, e insieme
    Nei cieli si confusero.

                    E la Sventura
    Parte scontò del tuo delitto, o forte,
    E velò d’una lacrima il soverchio
    Raggio della tua gloria: – e forse un giorno
    Pellegrini verremo alla tua tomba,
    Dove or siede custode la vendetta
    Dei regi che tremarono, e un sospiro
    Alle deserte ceneri contende.
    E la Sventura eterna ha sulla terra
    Una religïone, – e nel sepolcro
    L’uomo non va, se prima non l’adora.
    E la Dea più tremendo sacrificio
    A te chiese, che agli altri; – il pianto chiese
    E il servaggio dei popoli, – e tu desti
    La servitù col pianto; – ed eri allora
    Sacerdote e non vittima, e calcasti
    La crëatura come pavimento;