Sciotel/Parte Seconda/Capitolo Primo
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PARTE SECONDA
Capitolo Primo
1. Non credo che potrò essere accusato di soverchio orgoglio o di superbia, se affermo che, sopra ogni fine di speculazione finanziaria, sopra il mio personale e particolare interesse, ho messo sempre l’amore verso la Patria, e l’incremento, lo splendore delle colonie italiane all’Estero.
Credo di aver dato tante pruove del mio ardente patriottismo, che son sicuro di non potere essere smentito da chicchessia, allorchè dico che, in tutte le mie intraprese, in tutti i miei progetti, più che il mio utile particolare, ho avuto sempre di mira l’interesse nazionale.
Chi mi concederà l’onore di leggere questa Seconda Parte della mia relazione si convincerà appieno di quanto ho detto innanzi; poichè vedrà coi suoi occhi quanto ho sofferto, quanto sudore e quanto danaro ho sparso per vedere risorta la Colonia Italiana di Sciotel.
Vedrà quanto ho lavorato sin dal 1876 per far sì che gli Italiani mettessero piede in quella terra, che il nostro Governo si è risoluto di occupare soltanto dopo nove anni dal mio primo progetto!
Chi sa se i nostri governanti non si siano pentiti delle incertezze, delle titubanze, delle false modestie, e del lungo indugio che ci mise in pericolo di essere posti da parte in quel grande ed incessante lavorio, palese od occulto, che le nazioni europee stanno spiegando in tutte le regioni dell’Africa! Pericolo che il nostro illustre Mancini ha chiaramente manifestato alla Camera dei Deputati; pericolo che sarebbe stato funestissimo per il nostro avvenire commerciale e politico, poichè ci avrebbe tagliato fuori dell’Africa, e per sempre, come fummo in America.
Io, posso dirlo con orgoglio, aveva veduto da gran tempo siffatto pericolo, ed, in una memoria del 1876 in cui raccoglieva tutte le lagnanze della colonia italiana in Egitto, detti il primo grido di allarme; ma allora non fui ascoltato, e la colonia italiana di Sciotel è ancora un desiderio.
2. Sciotel ha sempre esercitato su me un fascino vivissimo; è stato sempre il mio pensiero dominante; e, benchè lontano da quella regione ed occupato in imprese di costruzioni importantissime, pure ho sempre seguito con la massima attenzione e col più grande amore, tutto ciò che dai coloni si facea.
Amicissimo di Zucchi, Bonichi, Buccianti ed altri coloni, seppi subito della concessione fatta da Haylù al Padre Stella, dei contratti stipulati con lui, e del loro progetto di colonizzazione. Posso quasi dire che presenziai alla loro partenza dal Cairo, poichè, essendo vicinissimi di abitazione, assisteva al loro continuo affaccendarsi per riunire uomini, armi, munizioni, derrate, macchine, vettovaglie e tutto ciò che occorre a gente numerosa, che deve fare lunga dimora in un paese sprovvisto di tutto, lontano e in difficili comunicazioni con paesi civili.
Dai primi coloni, ritornati nel Novembre del 1867, seppi, con mio grandissimo dolore la morte di Zucchi e lo sfacelo in cui si trovava la colonia; e tanto più pungente era per me il dispiacere, in quanto che, oltre la perdita dello amico, mi affligeva il pensiero di non poter soccorrere la colonia, come io avrei voluto, e che con poco forse si sarebbe salvata; perchè allora io non poteva fare altro che rammaricarmi meco stesso e struggermi di bile.
Mi struggeva di bile, perchè vedeva che coloro, i quali potevano ed avevano l’obbligo di soccorrerla, la osteggiavano deliberatamente, come l’avevano osteggiata sin dal suo nascere, e come osteggiavano (pare impossibile!) tutto ciò che era italiano!
Mi rodevo di bile, perchè presentiva sin d’allora che non avrei potuto far nulla, contro questi nemici della Patria; erano di fatto molto a me superiori, e di gran lunga più potenti...
Pur nondimeno stava sempre in sullo avviso, per cogliere l’occasione, ove si fosse presentata, a fin di potere giovare alla colonia e riuscire utile alla patria. E, rimasto il Bonichi a mantenere il possesso di Sciotel, non mancai di farmi tenere informato di quanto egli facea nello interesse della colonia, come si può vedere da una lettera che egli dirigeva al Giustini; lettera che ho in mio potere, ed è nel secondo volume dei documenti. In essa manifestava le pessime condizioni in cui era, e diceva, che si trovava costretto dalle necessità a dover trattare con una commissione Prussiana, per la cessione dello Sciotel; poveretto! ci raccomandava di far presto.
Mentre io mi scervellava, pensando il modo come andare in soccorso di Bonichi e della colonia, ebbi il triste annunzio che egli vinto da crudele carestia, sopraffatto ed abbindolato da Munzinger, avea fatto la cessione al Governo egiziano.
3. Debbo qui confessare ad onore del vero, che in questa circostanza poca cosa ho potuto fare per mantenere i nostri dritti su Sciotel; perchè non mi conveniva, in quel momento, mettermi palesamente in urto col Governo egiziano.
Difatto, io aveva, proprio allora, presentato un grandioso progetto, che, se fosse stato accolto, avrebbe sollevato il morale ed il prestigio della colonia italiana, che di giorno in giorno si andava dileguando, a vantaggio dei nostri antagonisti.
Il mio progetto riguardava la costruzione di porticati lungo i lati di una strada aperta nel vecchio Cairo detta il Clot-Bey; e, per far giudicare al lettore della grandiosità e della utilità somma di esso, trascrivo qui un tratto della relazione che, unitamente al progetto io presentai al Governo di S. A. il Kedivè nel 1872.
«Fra le quali strade non ultima è quella recentemente aperta dalla piazza dello Hôtel d’Orient, e che conduce alla via ferrata; essa, per la sua imboccatura al Nord, è di somma utilità igienica per quella parte di Città, ed è appunto per tale strada che riguarda il mio progetto.
Questo progetto io l’aveva ideato sin dal cominciamento del taglio, e per varie ragioni non lo potetti mettere in carta; fra le quali, non ultima, è quella di essere stato chiamato a far parte della spedizione di Poilet, nello alto Egitto, per gli studî di un nuovo canale.
Ritornato or sono quattro mesi dalla detta spedizione, primo mio pensiero fu quello di visitare quella strada, e veduto, dalle poche fabriche costruite e da quelle che si costruivano, come male fosse interpetrata, e direi quasi falsata, l’intenzione della Altezza Vostra nello aprire quella strada, mi accinsi subito, e con vero amore, a lavorare sul mio progetto; pel quale non ho risparmiato nè fatiche nè tempo, che bramerei fosse coronato dal benevolo accoglimento della Altezza Vostra. Detto progetto riguarda soltanto il lato Ovest di essa strada, riserbandomi di studiare ancora per l’altro lato, quando all’Altezza Vostra piaccia.
Partitomi dal principio che l’apertura di detta strada ha avuto il duplice scopo della utilità igienica e di un commodo e splendido ingresso alla città pel viaggiatore, che si reca a visitarla, pensai che prima ed indispensabile necessità fossero i portici, senza dei quali non potrebbesi raggiungere totalmente lo scopo della igiene, nè quello della comodità. E credo di non essermi male apposto, quando si rifletta che una strada della lunghezza di circa 760 metri non potrà, con molta sicurezza di salute, nè tanto commodamente traversarsi dal passaggiero nelle ore meridiane della stagione estiva. Tanto più che, non trovandosi riparo alcuno nè all’uno nè all’altro sbocco di essa strada, si dovrebbe sfidare la potenza dei raggi solari pel tragitto di molte altre centinaia di metri ancora.
Quanto poi alla necessità che questa strada possegga una decorazione artistica, io l’ho desunto dallo spirito di cui sono informati tutti i lavori e le opere che l’Altezza Vostra dispone. I quali lavori tendono a formare del Cairo una grande e splendida città; che gareggiare possa con le primarie Capitali di Europa.
Ed è perciò che penetrato da siffatta idea, ogni amorosa cura ho posta per decorarla di bei palazzi, e di un arco trionfale al suo principio; che darebbe al forestiero il vero concetto della grandezza e maestosità della città, riformata e sorta mercè l’incoraggiamento dato alle arti ed alla industria dalla Altezza Vostra».
Per far meglio vedere l’importanza di quel mio progetto e il grande profitto che da esso si sarebbe ricavato, dirò che l’aggiunzione dei portici non avrebbe fatto spendere un centesimo di più al Governo egiziano.
Difatto i portici doveano costruirsi tutti a spese dei proprietari, e la spesa, come io matematicamente dimostrava, era soltanto di 1,750,000 franchi, ed avrebbe arrecato ai proprietari una rendita netta di 134,000 franchi, perchè i fabbricati venivano ad aumentarsi di 560 camere. Tutto ciò si otteneva col restringere di quattro metri la via carreggiabile, che era larga quattordici, portando così i marciapiedi da tre a cinque metri senza andare incontro ad alcuno inconveniente, giacchè le identiche modificazioni furono in seguito apportate dal Governo egiziano, come dirò appresso.
Benchè il progetto pei soli portici portasse la spesa di F. 1,750,000 pure, messo in esecuzione, avrebbe necessariamente richiesto che il totale si aumentasse sino a 6,500,000. Difatto la costruzione dei portici lungo la strada, avrebbe portato il riordinamento dei portici stessi colle case; ciò che sarebbe al minimum ammontato ad altrettanta spesa, cioè a 1,750,000
In tutto 3,500,000
La costruzione dei portici avrebbe pure richiesto, quelle della piazza del Faggala, e dell’arco trionfale.
La spesa per l’arco trionfale sarebbe ammontata almeno ad 1,000,000 di franchi; poichè vi erano quattro statue, e la statua equestre di Sua Altezza.
Ed i sei edifici che io progettava per la piazza avrebbero richiesto al minimum la spesa di 2,000,000 di franchi; così che in tutto, il mio progetto sarebbe ammontato alla spesa complessiva di 6,500,000 franchi.
4. Aveva perciò il diritto di pretendere che il mio progetto, non solo non dovea incontrare ostacoli ed opposizioni, ma dovea essere accolto, sarei quasi per dire, senza discussione, sia per la manifesta utilità di esso, sia perchè io non era un Carneade qualunque, ma era abbastanza conosciuto in Egitto, per importantissimi lavori da me fatti e per conto di privati e per conto del Governo medesimo.
Nel principio del 1865, per incarico ricevuto dal Cavaliere Avoscani, feci gli studii per la distribuzione del nuovo quartiere Ismailia nel Cairo, ed in certe zone di terreno che altro non erano se non nuda ed incolta campagna. Feci poi il piano del Quartiere stesso che ha una superficie di circa 2,000,000 di metri quadrati; ed il mio lavoro meritò lodi, ed ammirazione da tutte le persone intelligenti, ed incontrò ancora la piena soddisfazione di Sciamà Bey, allora Ingegnere Capo dei lavori pubblici. Assistei ed ebbi parte ai lavori per la costruzione del grande Hôtel, edifizio che a buon diritto si può dire monumentale. Eseguii diversi studi e lavori pel giardino dell’Esbekie, che oggi forma la delizia degli abitanti del Cairo; e feci gli studi pel progetto ed assistei alla costruzione del Teatro dell’Opera, che come per incanto fu costrutto in soli sei mesi.
Insieme ad altri tre Ingegneri francesi mi recai nell’alto Egitto per studiare e progettare un gran canale, della lunghezza di centocinquanta chilometri.
Ma, quello che destò maggior rumore intorno alla mia persona, fu il fatto della casa di un tale Marcopulo. Questo sig. Marcopulo, benchè contentissimo di una casa che per conto suo io avea progettato e costruito, dovendo fabbricare un palazzo della superficie di oltre 1,300 metri quadrati credette, perchè io era italiano, fare a meno di me e servirsi di un suo connazionale. Finito il pianterreno di esso, il Marcopulo, non contento di quel progetto, certamente con poca dignità da parte sua, mi chiese di modificarlo; cosa che io feci subito riuscendo a contentarlo in tutto e per tutto. Ma, accortomi che mi volea ingannare, non gli consegno il nuovo progetto; lo pianto in asso e parto per l’alto Egitto.
Dopo un certo tempo, ritornato per poco al Cairo, vidi completati i due piani superiori del palazzo ed, entrato nei magazzini, mi accorsi che il fabricato minacciava rovina; ne avvisai i nipoti del proprietario e sparsi la notizia fra i nostri connazionali e i miei conoscenti di colà. Due giorni dopo incontrai il Marcopulo e, invece di essere ringraziato, venni insultato da lui e dal nipote. Senza fare alcun conto delle loro insolenze, e con molta filantropia, replicai a loro insistentemente che provvedessero subito, perchè l’edifizio era proprio per rovinare. Eglino non mi dettero ascolto; dodici ore dopo parte del palazzo crollava, il resto veniva prontamente puntellato e l’indomani io ripartiva per l’alto Egitto.
Questo fatto, come dissi innanzi, destò gran rumore in tutto il Cairo, e dimostrò chiarissimamente che, se io non era un Michelangelo Buonarroti, un Leonardo da Vinci, non era però ignorante o novizio nell’arte mia.
5. L’importanza adunque del mio progetto, sia che si considerasse dall’aspetto economico, sia dall’artistico, e l’essere io ben conosciuto in Egitto per gli altri miei lavori, mi faceva sperare che sarei facilmente riuscito nel mio intento. E, per riuscire con più facilità, pensai di completare il lavoro, presentando anche un altro importantissimo progetto per la Piazza del Faggala, che dovea costruirsi all’un dei capi della innanzi detta Strada, e propriamente dalla parte della Ferrovia. Ma fu tutto inutile; il mio progetto, benchè ottenesse continuate ed entusiastiche approvazioni dai più eminenti personaggi, pure non ebbe l’onore di pervenire alle mani di S. Altezza.
Nè è a credere che io sia stato con le mani in mano, e nulla abbia fatto per vederlo tradotto in opera; anzi al contrario, non lasciai mezzo intentato, sfidando fin anco la prigione.
La prima persona cui m’indirizzai fu il Comm. Aghemo che allora era al Cairo in missione privata. Egli, pur convenendo che il mio progetto era bello e grandioso, mi assicurò che non potea togliersi l’incarico di presentarlo al Kedivè, perchè glielo impediva la missione particolare del nostro Governo, ed anche a cagione della grandiosità stessa del progetto. Nè alcun utile mi arrecarono le commendatizie che, per lui, mi pervennero da molti eminenti personaggi d’Italia; nè le vivissime preghiere del nostro Console Brunenghi. Al quale ho il dovere di rendere qui pubblici e sentiti ringraziamenti, di quanto ha fatto nel mio interesse e per vedere accolto il mio progetto: egli ne parlò all’Aghemo fin anco nella pubblica udienza, che il Kedivè tenne quando gli fu presentato il collare della SS. Annunziata.
Come pure ho il dovere di ringraziare il Cav. Avoscani, che ad alta voce sosteneva la grandiosità del mio progetto; ma tutto fu inutile, perchè l’Aghemo credeva che la spesa di 1,750,000 franchi spaventasse il Kedivè. Egli non sapea che il Vice Re, per un semplice e forse capriccioso cambiamento da farsi ad uno dei suoi palazzi, spendeva uno o due milioni in pochi giorni! E del resto la spesa del mio progetto non era a carico del Kedivè, ma dei proprietari; egli non dovea fare di suo conto altro che l’arco trionfale e la Piazza, se pure volea costruirli.
Partito l’Aghemo presentai quattro petizioni a sua Altezza, ma nessuna pervenne nelle sue mani, perchè le persone che lo attorniavano ubbidavano ad una rigorosa consegna.
Allora, esasperato, tentai un’ultimo passo, ed un giorno, non ostante il cordone, due mie lettere volano verso la carrozza del Kedivè; ma, sfortunatamente nessuna perviene a S. A. perchè cadono ai lati della carrozza. Venni arrestato, ma rilasciato in libertà dopo mezz’ora, e per ordine del Kedivè stesso; però del mio progetto egli non seppe mai niente, perchè tutte le mie petizioni venivano intercettate!
6. Per far vedere poi come le lodi, che da tutti si facevano ad esso, non erano simulate, ma schiettissime; per far vedere che veramente era grandioso ed utile, anzi necessario; per far vedere le vere cagioni percui non fu allora accolto, dirò che esso fu messo in opera, ma da altri, quattordici anni dopo, e precisamente quando già i varii proprietarii aveano costruite le loro case. Leggete:
«Il Clot Bey sta trasformandosi. Sembra che il bellissimo progetto del nostro Ingegnere De Lorenzo, quello cioè di fiancheggiare tutta la via maestra di detto quartiere con arcate e portici, sibbene non venne sulle prime accettato, perchè Italiano, ora tradotto in Francese non solo fu accolto, ma è pur messo in opera. Che peccato che il De Lorenzo non si chiama De Laurent! Ai nostri dì ed in Egitto lo stesso S. Lorenzo sarebbe non solo arrostito, ma anche fritto se non appartenesse o non si fingesse del bel paese ove il naso parla 1».
Il 5 settembre del medesimo anno, in risposta ad una mia richiesta, riceveva dal Ministro dei Lavori Pubblici di Egitto, la seguente lettera:
- Monsieur,
«l’ai reçu votre lettre du 31 août 1886 avec la quelle vous me remettez une copie des rapports que vous avez soumis en l’année 1872 à son Altesse l’ex-Kédive relativament à la construction d’arcades dans le Boulevard Clot-Bey.
En vous remerciant de cette communication, j’ai l’honneur de vous informer que les seuls travaux que le Gouvernement prenne à sa charge sont ceux d’elargissement des trottoirs; le changement des façades sera fait par les propriétaires au fur et à mesure de leur désir, sans que le Gouvernement ait à intervenir autrement que pour le Ransim.
Dans ces conditions, il n’y a pas des travaux spéciaux à exécuter et j’ai le regret de vous apprendre que l’offre que vous me faites par votre lettre sus-visée de diriger les travaux de ce Boulevard ne peut etre acceptée.
Agréez, Monsieur, l’assurance de ma consideration distinguée.
Le Ministre
A. Rouchdy
Mr. François de Lorenzo
- Architecte
- au
- Caire
- Architecte
Come si vede adunque, dalla lettera sopra trascritta, il mio progetto fu finalmente trovato utile, ed attuato senza modificazione, o per dir meglio modificato leggermente, ma forse in peggio. Poichè se, per la parte artistica e decorativa, il mio progetto era informato ad unico concetto, secondo poi la modificazione aggiunta dal Governo egiziano pare che la costruzione dei portici, non so con quanto giusto criterio artistico, era lasciata all’arbitrio, al gusto dei proprietarii! Non so che cosa ne sia nata, potrebbe anche essere una cosa mostruosa; ma, comunque sia, è certo che dopo 14 anni il Governo egiziano vide la necessità di fare quei portici; e dal mio lavoro e da quattro anni di incessanti pratiche, e gravissimo dispendio non ricavai altro utile se non quello di poter rivendicare l’onore di averli per il primo progettati.
7. E così dovea finire! noi altri italiani, lì in Egitto, non dovevamo sperare altro che l’onore di lavorare; l’utile poi era serbato ai francesi, ed agli altri stranieri. Regis ad exemplum totus componitur orbis! Se le nostre autorità non aveano o peggio non voleano avere voce in capitolo, che cosa potevamo fare noi altri oscuri sudditi?
Gli stranieri trovavano appoggio e protezione nei loro rappresentanti, e, per mezzo loro, ottenevano concessioni e lavori, facendosi belli e profittando dell’opera altrui; giacchè non vi è chi possa ignorare quanta parte ebbero gli italiani nello spingere l’Egitto sulla via della riforma e del progresso.
Per dirla in poche parole la nostra colonia era caduta sì basso da essere del tutto disprezzata e vilipesa.
Note
- ↑ Il Messaggiere Egiziano 30 agosto 1886, N. 207. Alessandria.