Satire di Tito Petronio Arbitro/32
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CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO.
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fine della favola.
Quando finalmente giunsi a ricoverarmi in casa corsi a letto tutto stracco, nè però potei prender sonno, a cagion de’ pensieri della mia disgrazia che mi disturbavano; e considerando nessuno esservi più di me sventurato, io dicea che la fortuna a me sempre nimica avea chiesto in soccorso i tormenti dell’amore onde maggiormente cruciarmi. Oh me tapino! Fortuna ed amore unendo le loro forze cospirano alla mia ruina; e cotesto cattivello d’amore non mi fu propizio giammai, dappoichè e amante e amato sono afflitto egualmente. Or vedi Criside, che mi ama perdutamente, nè lascia di molestarmi, costei, che nell’offerirmi la sua padrona mi disprezzava come uno schiavo abbietto, del cui abito io era vestito, costei dico, la quale odiava il mio stato primiero, or si è messa a perseguitarmi anche con suo pericolo, e nel dichiararmi la violenza dell’amor suo giurò di volermi sempre attaccato al suo fianco. Ma io sol di Circe mi curo, le altre disprezzo. Diffatto che vi ha di più avvenente di lei? qual bellezza simile a questa vantar potrebbe Arianna o Leda? Che sarebbero appetto a lei Elena, o Venere? Paride stesso giudice tra le emule dive se costei vedeva al confronto con quegli occhi sì vivaci, le avrebbe sagrificato Elena, e quante si conoscano dive. Almanco mi concedesse un bacio, mi lasciasse almanco abbracciare quel seno celeste, divino! forse il mio corpo tornerebbe robusto, e le parti che io credo malefiziate, riviverebbero. Non mi sgomentano le ingiurie ricevute, non mi ricordo delle percosse, l’esserne cacciato via mi pare uno scherzo: basterebbemi tornare in sua grazia.
Queste e simili cose e l’idea della bellissima Circe mi riscaldaron la mente in maniera, che io guastai il letto pel mio continuo agitarmi, come s’egli contenesse la mia fiamma. Eppure ancora a nulla riuscirono i miei movimenti. Sì ostinata disgrazia ruppe finalmente la mia pazienza, e bestemmiai l’avverso mio genio di avermi aduggiato. Tuttavia rimessomi in calma mi diedi a cercare qualche sollievo trammezzo agli antichi eroi, che furono in cotal guisa perseguitati dagli Iddii, e proruppi in questi versi.
Non sono io solo, cui persegua un Dio.
E l’implacabil fato: Ercole afflitto
Dalla irata Giunon del ciel sostenne
Il peso un dì, Pelia tremolle innanzi
5Poi che la profanò: Laomedonte,
Nè sapea contra chi, vibrò lo strale:
Telefo l’odio dei gemelli dei
Fu astretto sostener: Nettunno il volto
Fe’ impallidir di Ulisse; e me la grave
10Sulla terra e nel mare ira persegue
Del nume Ellespontiaco Priapo.
Da tali inquietudini tormentato passai tutta la notte in agitazione; e al primo albeggiare entrò Gitone in mia camera, il quale avea inteso che io avea dormito in casa, e stizzosamente mi rinfacciò la vita mia licenziosa, dicendo che tutta la famiglia lagnavasi fortemente della mia negligenza, per cui rare volte io assisteva alle faccende, e che quella mia pratica mi sarebbe probabilmente stata funesta.
Compresi da ciò, ch’egli era consapevole de’ fatti miei, e che erasi forse venuto a cercarmi a casa: quindi mi diedi a interrogare Gitone se alcuno aveva chiesto di me. Oggi nessuno, rispose, ma ieri venne una donna pulitamente abbigliata, e dopo avermi lungamente parlato, e stancomi col suo tanto fiscaleggiarmi, finì col dire, che tu meritavi castigo e che sarai flagellato come schiavo se chi hai offeso durerà nella sua collera.
Mi dispiacquero grandemente queste notizie, e tornai da capo a lagnarmi della fortuna: nè ancora eran finiti i miei lagni che sopravvenne Criside, la qual corsami addosso con caldissimo abbracciamento, io pur ti tengo, disse, come ho sperato: tu se’ il mio desiderio, tu la mia gioia, nè questo mio ardore tu spegnerai, se col sangue tuo non l’ammorzi.
Assai mi turbò questa sfacciataggine di Criside, e studiai di mandarla via con belle parole, perch’io temeva che lo schiamazzo di questa matta non giugnesse alle orecchie di Eumolpione, il quale insuperbito della sua prosperità avea usurpata sopra noi un’aria da padrone. Studiai dunque ogni mezzo per acquietar Criside, finsi di volerle bene, le susurrai dolci parolette, insomma sì astutamente mi comportai, ch’ella mi credette innamorato: le esposi dipoi in qual pericolo ci trovassimo entrambi s’ella venisse sorpresa in camera mia, per essere Eumolpione corrivo a castigare per ogni menomo che. Ciò udendo ella sortì frettolosamente, tanto più che scorse Gitone ritornare in mia camera, dond’era uscito un momento prima ch’ella venisse.
Appena partita, uno de’ nuovi servi corse ad un tratto a me, dicendomi che il padrone era in grandissima collera per aver io mancato due giorni al mio ufficio, e che io farei bene trovare una scusa qualunque, che valesse; poichè era quasi impossibile che si mitigasse tant’ira senza una flagellazione.
Turbato di bel nuovo ed afflitto mi rivolsi a Gitone, acciò nulla mi dicesse della donna: diffatti egli non parlò di Eumolpione, suggerendomi che secolui facessi viso allegro, anzichè sostenuto. Così feci, e ad esso mi presentai con faccia sì gaia, ch’ei non bruscamente, ma con gentilezza mi accolse, e scherzò meco delle mie amorose fortune, e lodò la mia avvenenza e attillatura in pregio a tutte le donne, e dissemi: non ignoro che di te spasima una delle più belle, e ciò, soggiunse, or potrebbe in questo luogo giovarci, o Encolpo: sostieni tu dunque la parte di drudo, ed io sosterrò quella che ho intrapresa.
Stavamo tuttavia chiaccherando allorchè entrò una delle più savie matrone del paese, per nome Filomena, la quale ne’ suoi bei giorni avea carpite molte eredità, e che allora vecchia e brutta introduceva per le case de’ vecchi celibi un suo figlio ed una sua figlia, per mezzo de’ quali ella continuava quel suo artifizio. Ella dunque presentossi ad Eumolpione raccomandando alla di lui prudenza i suoi figli, e sè e le sue speranze confidando nella di lui bontà. Disse esser egli il solo in tutto il mondo, che oggi sapesse allevare la gioventù con dottrina ancor sana, e ch’ella insomma lasciava i figli suoi in casa Eumolpione, perchè lo udissero parlare, locchè era la sola eredità che a que’ giovani potea lasciare. Nè altrimenti fece di quel che disse, perchè lasciògli in camera una ragazza bellissima con un fratel giovinetto, e finse di andarsene al tempio a far sue preci.
Eumolpione, il qual era sì castigato, che io persino gli parea tuttora bardassa, non tardò ad invitar la fanciulla ad un sacrificio a Venere. Ma avendo egli detto d’essere podagroso e tutto sciancato ne’ lombi, se non perseverava costantemente questa finzione, andava a pericolo di rovesciar tutto il dramma. Perciò, onde accreditare la sua menzogna, pregò la fanciulla a sedere sopra di lui adagiato, e ordinò a Corace di stendersi sotto il letto, ov’egli giacea, e appoggiando le mani contro il pavimento sommovesse co’suoi reni il padrone. Costui ubbidì gentilmente al comando, soddisfacendo con pari contraccolpi l’abilità della fanciulla; e quando la cosa s’avvicinava al suo termine, Eumolpione alzata la testa esortò Corace a movere più lesto: nel qual modo il vecchio situato tra il servidore e la bella parea che giuocasse all’altalena.
Una e due volte Eumolpione eseguì con grandissimo riso anche suo questa faccenda. Ond’io per non perdere eziando le buone usanze, mentre il fratello guatava per una fenditura il meccanismo di sua sorella, me gli approssimai per tentare se resisteva alla prova. Questo bravissimo ragazzo non ritirossi alle mie carezze, ma qui pure trovai nemico il nume.
La presente fiacchezza non mi afflisse tanto, quanto le anteriori; oltr’a ciò mi ricomparvero poco dopo i nervi, e sentendomi in quell’istante vigoroso sclamai: I Dei di prim’ordine mi hanno restituito alla mia integrità, ed è Mercurio, cui la partenza ed il ritorno delle anime è confidato, che mi ha per sua grazia reso ciò che tolto mi avea una mano atroce, onde io sarò ora più accetto che non fu Protesilao, o altro qual vogliasi antico.
Dopo ciò mi rialzai la tonica e mi palesai tutto intero ad Eumolpione, il quale a prima vista inorridì, indi, per meglio accertarsi, volle a due mani abbrancare quella grazia di dio.
Un tanto beneficio avendoci messo dì buon umore, ci diemmo a ridere della prudenza di Filomena, e della pratica, che avean del mestiere i di lei figli, i quali rispetto a noi non avevano di che migliorare, giacchè colei avea consegnato il fanciullo e la ragazza unicamente per lusinga della eredità. Da ciò venutami occasion di pensare tra di me a codesta sordida industria di circondare i poveri vecchi, scesi a ragionare sullo stato presente della nostra fortuna, e osservai ad Eumolpione che i furbi potevano ingannarsi con pari furberia. Tutte le azioni nostre, gli dissi, devono andar di concerto con la prudenza. Socrate, per giudicio degli uomini e degli Dii sapientissimo, solea gloriarsi di non aver giammai veduta veruna bettola, nè adunanza veruna soverchiamente affollata. Niente dunque val meglio, che parlar sempre colla filosofia sulle labbra. Tutto questo è verissimo, perciò nessun uomo deve più sollecitamente rovinarsi di colui che l’altrui roba desidera. Di che viverebbero i bianti, e i monelli, se non sapessero adescar la plebe col suono del danaro, che le mostrano nelle borse e ne’ saccoccini? In quel modo che gli animali muti s’ingannan coll’esca, così non prenderebbonsi gli uomini per la sola speranza se nessun boccone gustassero. A questo fine i Crotonesi ci hanno finora lautamente accolti. Ma non per anco giugne dall’Affrica la nave carica de’ tuoi tesori e de’ tuoi servi da te promessa. I furbi già esauriti rallentano nella loro liberalità. Laonde o io m’inganno, o la comun fortuna s’avvia di nuovo alle primiere angustie.
Io ho pensato, rispose Eumolpione, come rendere più cortesi i nostri furbi verso di noi; e tratti al tempo stesso di tasca alcuni scritti, lesse questo suo testamento.
“Tutti coloro che in questo mio testamento ottengono alcun legato, eccettuati i miei liberti, non riceveranno l’eredità se non col patto che abbiano a tagliare a pezzi il mio corpo, e mangiarlo in pubblico. E perchè di ciò non inorridiscano più di quel che conviene, è noto che presso alcuni popoli esiste una legge, che gli estinti siano mangiati dai loro parenti, sino a ingiuriar spesse volte gli infermi, per cagione che la lor carne si fa peggiore. Con ciò intendo ammonire gli amici miei a non ricusare ciò che ordino, ed a consumare il mio corpo colla stessa alacrità colla quale offrono l’anima mia agli Dii.„
Intanto ch’egli leggeva queste prime righe, alcuni de’ più famigliari d’Eumolpione vennero in camera sua, e vedendogli in mano i fogli del testamento lo pregaron caldamente a metterli a parte della lettura; egli accondiscese immediatamente, e tutto lesse dalla prima all’ultima parola. Udendo però essi la necessità di mangiarne il cadavere, rimasero oltre modo afflitti di sì straordinaria condizione: ma il suo gran credito acciecava gli occhi e la mente di quei miserabili, e stavansi innanzi a lui sì umilmente, che non osarono lagnarsi di tal novità. Anzi un di costoro, per nome Gorgia, era disposto ad eseguire il patto, purchè non avesse ad aspettar lungo tempo. Al che Eumolpione rispose: Io non ho certamente alcun dubbio sul rifiuto del tuo stomaco, il quale eseguirà la legge, se tu gli prometti per un’ora di nausea il compenso di tante ricchezze. Non hai che da chiuder gli occhi, e immaginarti d’ingoiare non viscere d’uomo, ma centomila sesterzj. Aggiugni che puoi inventare qualche condimento, col quale cangiarne il sapore; giacchè non evvi carne che piaccia per sè medesima, ma si acconcia in qualche maniera, e rendesi gustosa agli stomachi più delicati. E se vuoi cogli esempj persuaderti di ciò, ch’io dico, i Sagontini bloccati da Annibale mangiarono umane carni, senza che ne sperassero veruna eredità. Lo stesso fecero i Petavj in un’estrema carestia, nè altro guadagnavano in cotal pasto, se non che non si morivan di fame. Quando Numanzia fu presa da Scipione, furon trovate alcune madri che nascondevansi nel grembo i corpi mezzo manucati de’ lor bambini. Finalmente siccome il fastidio di mangiar questa carne non può nascere che dalla opinione, bisogna vincere con ogni sforzo codesta avversione, onde lucrarvi gli immensi legati, che io vi lascio.
Eumolpione disse queste sue nuove stravaganze con una maniera sì derisoria, che que’ malandrini cominciarono a prendere sospetto delle sue spampanate, onde postisi ad esplorar più d’appresso la nostra condotta e i nostri discorsi, si accrebbero con tal prova i sospetti e si accorsero che noi eravamo garbuglioni e gabbamondo. Oltre a ciò alcuni forestieri avevanci riconosciuto: laonde coloro che ci aveano trattato con maggior profusione deliberarono di porci le mani addosso, e vendicarsene giusta il merito nostro. Ma Criside, che di tutte codeste macchinazioni era consapevole, m’informò della risoluzione presa dai Crotonesi contro di noi: la qual notizia spaventommi in guisa, che all’istante io me ne scappai con Gitone, abbandonando Eumolpione al suo infelice destino. Seppi dipoi di là a pochi giorni, che i Crotonesi irritati che codesto vecchio birbante avesse lautamente vissuto tanto tempo a loro spese, l’avevan servito alla marsigliese. Per intendere cosa questo significhi, bisogna sapere che i Marsigliesi ogni volta che erano afflitti dal contagio, uno dell’ultima plebe offerivasi per essere alimentato un anno intero a spese pubbliche e de’ cibi i più squisiti; poscia ornato costui di verbena e delle vesti sacre, conducevasi intorno a tutto il paese in mezzo alle esecrazioni, acciò sopra lui ricadessero i mali della città, indi gittavasi da una rupe.
FINE DELLA SATIRA.