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CAPITOLO TRENTESIMOSECONDO.

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fine della favola.



Quando finalmente giunsi a ricoverarmi in casa corsi a letto tutto stracco, nè però potei prender sonno, a cagion de’ pensieri della mia disgrazia che mi disturbavano; e considerando nessuno esservi più di me sventurato, io dicea che la fortuna a me sempre nimica avea chiesto in soccorso i tormenti dell’amore onde maggiormente cruciarmi. Oh me tapino! Fortuna ed amore unendo le loro forze cospirano alla mia ruina; e cotesto cattivello d’amore non mi fu propizio giammai, dappoichè e amante e amato sono afflitto egualmente. Or vedi Criside, che mi ama perdutamente, nè lascia di molestarmi, costei, che nell’offerirmi la sua padrona mi disprezzava come uno schiavo abbietto, del cui abito io era vestito, costei dico, la quale odiava il mio stato primiero, or si è messa a perseguitarmi anche con suo pericolo, e nel dichiararmi la violenza dell’amor suo giurò di volermi sempre attaccato al suo fianco. Ma io sol di Circe mi curo, le altre disprezzo. Diffatto che vi ha di più avvenente di lei? qual bellezza simile a questa vantar potrebbe Arianna o Leda? Che sarebbero appetto a lei Elena, o Venere? Paride