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fine della favola 197

colei avea consegnato il fanciullo e la ragazza unicamente per lusinga della eredità. Da ciò venutami occasion di pensare tra di me a codesta sordida industria di circondare i poveri vecchi, scesi a ragionare sullo stato presente della nostra fortuna, e osservai ad Eumolpione che i furbi potevano ingannarsi con pari furberia. Tutte le azioni nostre, gli dissi, devono andar di concerto con la prudenza. Socrate, per giudicio degli uomini e degli Dii sapientissimo, solea gloriarsi di non aver giammai veduta veruna bettola, nè adunanza veruna soverchiamente affollata. Niente dunque val meglio, che parlar sempre colla filosofia sulle labbra. Tutto questo è verissimo, perciò nessun uomo deve più sollecitamente rovinarsi di colui che l’altrui roba desidera. Di che viverebbero i bianti, e i monelli, se non sapessero adescar la plebe col suono del danaro, che le mostrano nelle borse e ne’ saccoccini? In quel modo che gli animali muti s’ingannan coll’esca, così non prenderebbonsi gli uomini per la sola speranza se nessun boccone gustassero. A questo fine i Crotonesi ci hanno finora lautamente accolti. Ma non per anco giugne dall’Affrica la nave carica de’ tuoi tesori e de’ tuoi servi da te promessa. I furbi già esauriti rallentano nella loro liberalità. Laonde o io m’inganno, o la comun fortuna s’avvia di nuovo alle primiere angustie.

Io ho pensato, rispose Eumolpione, come rendere più cortesi i nostri furbi verso di noi; e tratti al tempo stesso di tasca alcuni scritti, lesse questo suo testamento.

“Tutti coloro che in questo mio testamento ottengono alcun legato, eccettuati i miei liberti, non riceveranno l’eredità se non col patto che abbiano a tagliare a pezzi il mio corpo, e mangiarlo in pubblico. E perchè di ciò non inorridiscano più di quel che conviene, è noto che presso alcuni popoli esiste una legge, che gli estinti siano mangiati dai loro parenti, sino a ingiuriar spesse volte gli infermi, per cagione che la lor carne