Satire di Tito Petronio Arbitro/19
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CAPITOLO DECIMONONO
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i begli ingegni s’incontrano.
Ma facil non m’era di vincere il desiderio di vendicarmi, e agitato trascorsi la metà della notte; per alleviarmi però dalla malinconia e l’offesa dimenticare, quando fu giorno sortii; e gironzando pei portici giunsi ad una galleria,1 maravigliosa per varietà dei quadri; imperocchè ne vidi di mano di Zeusi non ancor guasti dalla ingiuria del tempo, e toccai non senza certo rispettoso orrore alcuni abbozzi di Protogene, che rivalizzavano colla verità della natura. Venerai pur anco un Apelle, ossia un Monocromate,2 come dicono i greci, dove i contorni delle figure eran di tanta eccellenza, e sì precisamente simili al vero, che avresti creduto che perfin l’animo vi fosse pinto.
Là un’aquila alta portava pel cielo Giove: quà il candido Ila cacciava da se la impudica Naiade;3 e altrove Apollo rodevasi le mani omicide, e la sdraiata sua cetra adornava del fior testè nato.4
In mezzo alle sembianze di questi amanti pitturati, io, come se fossi in luogo solitario, sclamai: amor dunque colpisce sin anco gli Iddii? Non ha Giove nel cielo suo chi sciegliersi? ma venendo a peccar sulla terra non fa ingiuria a veruno. La Ninfa rapitrice d’Ila avrebbe frenato il suo amore, ove sapesse che Ercole vi si opponeva. Apollo convertì in fiore l’anima del giovinetto; tutte insomma le favole ebbero i loro abbracciamenti senza rivalità. Ma io mi ho tolto in compagno un ospite più crudel di Licurgo.
Intanto che io mi stò così borbottando all’aria, ecco entrare nella galleria un vecchio canuto, di faccia macilente, che pareva promettere non so che di grande; ma ei non era pulito negli abiti e facilmente m’accorsi esser egli di quella classe di letterati, che sogliono essere odiati dai ricchi. Ei si fermò dunque vicino a me, e dissemi: Io son poeta, e non forse degli infimi, se puossi dar fede alle corone che ottenni, le quali però la protezione suole accordare anche agli ignari.
Perchè dunque, gli rispos’io, sei sì mal vestito?
Per ciò stesso, ei soggiunse. Amor di studio non fe’ mai ricco nessuno.
Chi al mar s’affida è di gran lucri altero,
D’oro ha le fasce chi combatte in campo,
Il vile adulatore ebbrio si sdraia
4Su preziosi drappi, e va premiato
Il seduttor delle altrui mogli. Sola
Sotto i logori panni intirizzisce
Letteratura, mentre in fioca voce
8Tenta onorar le belle arti sprezzate.
Ed è certamente così: quand’uno di tutti i vizj nemico rettamente intraprenda il cammin della vita, incontra in primo luogo l’odio altrui per la diversità de’ costumi, non essendovi chi si adatti ad usi contrari; in secondo luogo coloro che tendono solamente ad ammassar tesori, vogliono che nulla dicasi esser meglio tra gli uomini fuorchè l’esser ricco. Perciò corbellano in mille modi gli amatori delle lettere, onde indursi essi pure ad esser ligi dell’oro.
Io non so, diss’io sospirando, come la povertà sia sorella del buon ingegno. Ben a ragione, rispose il vecchio, la sorte compiangi de’ letterati.
Ah, non è questo, diss’io, il motivo de’ miei sospiri; altra cagione ho di dolermi e ben più grave: e al tempo stesso, giusta l’umana inclinazione di confidare altrui le proprie sciagure, gli esposi il mio caso, ed esagerai soprattutto la perfidia di Ascilto, sclamando fra questi gemiti: ben vorrei che codesto nemico della tua voluttà fosse tanto innocente, che iscusar si potesse: ma egli è un provetto ladrone, e ne sa più de’ ruffiani.
Il vecchio veggendo questa sincerità diessi a confortarmi, e per mitigare la mia tristezza mi raccontò quello, che in altri tempi era a lui stesso avvenuto in genere di amore.
Condotto io in Asia, diss’egli, da un Questore presso cui era impiegato, presi in Pergamo un alloggio, dove volentieri abitava non solo per gli addobbi de’ gabinetti, ma anche pel vaghissimo figlio dell’ospite, a cui studiai di esser amante senza che il padre ne sospettasse. Imperocchè ogni volta che ragionavasi a pranzo sull’uso de’ bei ragazzi, io montava in tanta collera, e con tanta severa austerità mi dolea d’insudiciarmi le orecchie di quelle oscenità, che la madre principalmente riguardavami come un filosofo. Diffatto io cominciai per condurre il giovinetto alla scuola, io regolare i suoi studj, io insegnargli, e metterlo in avvertenza che non s’introducesse nella casa alcun predator del suo corpo.
Un dì trovandoci a caso sdraiati nel tinello, perchè essendo giorno festivo non ci era studio, e la molta gozzoviglia avendoci messo in pigrizia di partircene, io m’accorsi verso la mezza notte che il ragazzo era desto: ond’io così sottovoce bisbigliando feci questa preghiera: o Venere signora, se io questo ragazzo avrò baciato, sì ch’egli non se ne accorga, dimani darògli un paio di colombe.
Udì il fanciullo il premio offerto pel mio piacere, e diessi a russare: ond’io appressatomi usurpai qualche bacio sul finto dormiente. Pago di questo principio molto di buon mattino mi alzai, e scelto un paio di colombe a lui che le aspettava le portai, e così sciolsi il mio voto.
La notte seguente, trovandomi nella stessa occasione, cambiai desiderio, e dissi: se io potrò con licenziosa mano palparlo e ch’egli non senta, o il soffra, io gli donerò due valentissimi galli. A questo voto il giovanetto mi venne più appresso, e credo prendesse timore che io non m’addormentassi. Perciò non perdei tempo, e in tutto il mio corpo un piacer più che sommo provai. Quando poi fu giorno recai quanto promisi a lui che ne fu lieto.
Col favor della terza notte mi accostai all’orecchio suo, mentre fingea dormire, e dissi: o Dei immortali, se io da questo addormentato riporterò un compiuto invidiabil piacere io per tanta contentezza donerò dimani al fanciullo un eccellente ginetto di Macedonia, a condizione però ch’ei non se ne avveda. Il giovanetto non dormì giammai più profondamente. Le mani adunque sul morbidissimo seno prima di tutto applicai, poi strinsimi a lui con un bacio, finalmente tutti i miei desiderj in un solo accoppiai.
La mattina egli trattennesi in camera aspettandomi giusta il costume. Tu sai quanto più facil sia comperar colombe e galli, che un ginetto; oltracciò io temea che un sì gran regalo non facesse nascer sospetto della umanità. Divagatomi dunque alcune ore tornai a casa, ed altro non feci che baciarmi il fanciullo. Ma egli guardandosi intorno, e tenendosi abbracciato al mio collo, di grazia, signore, mi domandò, dov’è il ginetto?
La difficoltà di incontrarne un bello, risposi, mi ha sforzato a differire il regalo, ma fra pochi dì la mia promessa avrà effetto. Il ragazzo capì benissimo com’era la cosa, e manifestò sulla faccia l’interno dispetto.
Nondimeno, benchè per questo inganno mi fossi chiuso il sentiero ch’io avea fatto, tornai di nuovo al mio vizio: poichè passati pochi giorni ed uno stesso accidente avendoci riuniti nello stesso luogo, quand’io udii suo padre a russare cominciai pregando lo scolaretto, che mi restituisse la di lui grazia, cioè che mi permettesse di dargli piacere con tutti i modi che una raffinata libidine sa suggerire. Ma egli assai corrucciato nient’altro mi rispondea se non che: o dormi, o ch’io dirollo a mio padre.
Ma niente è così difficile che il desiderio ostinato non superi. Intanto ch’ei dice, sveglierò mio padre, io l’annodai con impeto, e di lui, che mal s’opponea presi per forza piacere. Ma egli non adiratosi della mia dissolutezza, dopo essersi lungamente lagnato del mio inganno e del vedersi deriso e ballottato tra i suoi condiscepoli, co’ quali erasi vantato del mio promesso regalo, vedrai, mi disse, che non voglio però somigliarti, fa pure di nuovo ciò che più brami. E così dimenticato ogni dissapore tornai in amistà col fanciullo, e dopo essermi servito della sua cortesia mi addormentai. Ma non fu contento di questa replica lo scolaretto, che vi si era pienamente adatto, ed aveva un’età appropriata a cotale esercizio; onde svegliommi, e disse: non vuoi tu altro? Dal che chiaramente compresi non dispiacergli quel giuoco. Com’ebbe adunque non senza molta fatica e riscaldamento ottenuto ciò che voleva, io stanco dei piaceri m’addormentai nuovamente. Nè un’ora peranco era scorsa ch’egli si diede a punzecchiarmi coi diti, e dirmi, perchè non facciam noi? Allora io sì di frequente svegliato montai davvero in molta collera, e gli resi pan per focaccia dicendogli: o dormi, o ch’io dirollo a tuo padre.
Note
- ↑ [p. 302 modifica]Dai portici della galleria qui menzionata, e dalla vicinanza del mare, accennata poco sopra, rilevasi apertamente, col confronto di un passo di Filostrato assai dottamente citato dal signor Ignarra, una incontrastabile prova che il luogo di questi avvenimenti sia Napoli. V. Ignarra a pag. 192.
- ↑ [p. 303 modifica]Cioè pittura di un color solo. Di Zeusi, di Protogene, e di Apelle non è chi non abbia notizia.
- ↑ [p. 303 modifica]Ila fu amato da Ercole, e assai più da una Naiade cui ricusò sempre di compiacere, talchè indottolo in un fiume, vi rimase affogato.
- ↑ [p. 303 modifica]Si allude alla favola di Giacinto.