Satira II

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Aulo Persio Flacco - Satire (I secolo)
Traduzione dal latino di Vincenzo Monti (1803)
Satira II
I III
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SATIRA II.


A Plozio Macrino


Questo candido dì, che i fuggitivi
     Anni ti cresce, col miglior lapillo
     Segna, o Macrino, e al Genio offri del pretto.
     Tu con prece venal cose non chiedi
     5Da non fidarsi, che in disparte ai numi.
     Ma con tacito incenso il più de’ Grandi
     Liberà. Non a tutti acconcio torna
     Toglier dai templi il pissipissi, e aperti
     Sciorre i voti. Buon nome e senno e fede
     10Alto ognun gli dimanda, e tal che l’oda
     Lo stranier. Ma tra denti e nell’interno
     Mormora il resto: oh, se lo zio vedessi
     Sopra un bel catafalco! oh se d’ôr piena
     Mi screpazzasse sotto il rastro un’urna
     15Coll’ajuto d’Alcide! oh se potessi
     Sotterrar il pupillo, a cui succedo
     Prossimo erede! ché di rogna è zeppo
     E d’acri umori il meschinel: felice
     Nerio che mena già la terza moglie!
20A ben santificar queste preghiere
     Due volte e tre nel gorgo tiberino
     Tu mergi il capo la mattina, e purghi

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     Dentro l’onda la notte. Ma rispondi:
     Una minuzia vo’ saper. Di Giove
     25Che pensi tu? Nol credi da preporsi? ...
     — A chi preporsi? — A chi? mo... a Stajo almeno.
     Se’ forse in dubbio chi miglior dei due
     Sia giudice, o tutor d’orbi fanciulli?
     Or questo prego, con che tenti a Giove
     30Piegar l’orecchio, a Stajo il conta. E Stajo,
     O Giove! griderà, buon Giove! ed anzi
     Non udrem Giove apostrofar se stesso?
     Dunque, perchè tonando il fulmin sacro
     Fiede l’elce, e non te, nè le tue case,
     35Fai per questo pensier te la perdoni?
     Perchè al bosco cadavere non giaci
     Triste e vitando, insin che il prete Ergenna
     Con le fibre d’agnella non t’espia,
     Dunque per questo la balorda barba
     40Ti dà Giove a strappar? Ma con che prezzo?
     Con che t’hai compre degli Dei l’orecchie?
     Con fegatelli, e lardi, ed intestini?
Ecco l’ava, o la zia religïosa
     Toglie il bambin di culla, ed umettato
     45L’infame dito di lustral saliva,
     Il labbruzzo e la fronte in pria gli purga
     Di fascini perita arrestatrice.
     Indi alquanto lo scuote, e supplicando
     Or ne’ campi Licinj, or ne’ palagi
     50Di Crasso invia la magra speme: e lui
     Bramin genero un dì regi e regine,

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     Lui si rapiscan le donzelle, e tutto
     Che il suo piè calcherà rosa diventi.
     Non commett’io tai voti alla nutrice,
     55Nè tu, Giove, esaudirli; ancor che tutta
     In un bianco vestire ella ti preghi.
Forza tu chiedi, e fida agli anni tardi
     Sanità. Cosi sia. Ma le salcicce,
     E i gran piatti agli Dei turan l’udito,
     60E rattengono Giove. Ha chi arricchire
     Con buoi svenati imprende, e su le viscere
     Mercurio invoca: prospera i miei lari,
     Prospera il gregge, e i suoi portati. E come,
     Sciagurato, se squagli entro le fiamme
     65Adipe tanto di vitelle? E pure
     Con vittime ed opime libagioni
     Costui perfidia in suo pregar: già cresce
     La spiga, già l’ovil cresce, già fatta
     È la grazia, già già: finchè deluso
     70E fuor di speme l’ultimo quattrino
     Invan sospira della borsa al fondo.
Se argenteo nappo, o vaso a gran rilievo
     D’auro in dono t’arreco, dal contento
     Tu propio sudi, il cor nel lato manco
     75Spremesi in gocce, e trepida di gioja.
     Da quì la mente di smaltar ti venne
     Con auro tríonfal le sacre effigi;
     Precipui quei tra divi enei fratelli
     Che invían purgati dal catarro i sogni:
     80A questi tu farai d’oro la barba.
L’oro i vasi di Numa, e il rame espulse

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     Di Saturno, e cangiò l’urne di Vesta,
     E l’etrusche stoviglie. Oh de’ mortali
     Alme curve nel fango, e del ciel vote!
     85A chè nostri cacciar vizj ne’ templi,
     E stimar grato a Dio ciò che gradisce
     A nostra polpa scellerata? È questa
     Che le casie stemprossi in guasta oliva,
     Questa il calabro pel cosse in vermiglio,
     90Questa ne spinse a dispiccar la perla
     Dalla conchiglia; e monde dalla polve
     Del fervente metal strinse le vene.
     Pur s’ella pecca, (e certo pecca) almeno
     Del peccato si giova. Ma ne’ templi
     95L’oro a che serve? a che per dio? Ne ‘l dite
     Voi, Sacerdoti. Ciò che appunto a Venere
     La mimma, che donò la verginetta.
Che non piuttosto per noi s’offre ai Numi
     Ciò che offrir non potrà da sua gran mensa
     100Del gran Messala la perversa prole?
     Pietà, giustizia, in cor scolpite; i santi
     Della mente segreti, e caldo petto
     D’onestà generosa. A me ciò dona,
     Che al tempio il rechi, e literò col farro.