Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799/Capitolo XLIX

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XLIX


PERSECUZIONE DE’ REPUBBLICANI


Dopo la partenza di Mégeant, si spiegò tutto l’orrore del destino che minacciava i repubblicani.

Fu eretta una delle solite Giunte di Stato nella capitale; ma giá da due mesi un certo Speziale, spedito espressamente da Sicilia, avea aperto un macello di carne umana in Procida, ove condannò a morte un sartore, perché avea cuciti gli abiti repubblicani ai municipi, ed anche un notaro, il quale in tutto il tempo della durata della repubblica non avea mai fatto nulla e si era rimasto nella perfetta indifferenza. — Egli è un furbo — diceva Speziale: — è bene che muoia. — Per suo ordine morirono Spanò, Schipani, Battistessa. Quest’ultimo non era morto sulla forca; dopo esservi stato sospeso per ventiquattro ore, allorché si portò in chiesa per seppellirlo, fu osservato che dava ancora qualche languido segno di vita. Si domandò a Speziale che mai si dovea fare di lui: — Scannatelo — egli rispose.

Ma la Giunta che si era eretta in Napoli si trovò per accidente composta di uomini dabbene, che amavano la giustizia [p. 192 modifica]ed odiavano il sangue. Ardirono dire al re esser giusto e ragionevole che la capitolazione si osservasse: giusto, perché, se prima della capitolazione si poteva non capitolare, dopo aver capitolato non rimaneva altro che eseguire; ragionevole, perché non è mai utile che i popoli si avvezzino a diffidare della parola di un re, e perché si deturpa cosí la causa di ogni altro sovrano e si toglie ogni mezzo di calmare le rivoluzioni.

Allora fu che Acton disse che, se non avea luogo la capitolazione, poteva averlo la clemenza del re. Ma qual clemenza, qual generositá sperare da chi non osservava un trattato? La prima caratteristica degli uomini vili è quella di mostrarsi superiori al giusto e di voler dare per capriccio ciò che debbono per legge: cosí sotto l’apparenza del capriccio nascondono la viltá, e promettono piú di quel che debbono per non osservare quello che hanno promesso. Rendasi giustizia a Paolo primo. Egli conobbe quanto importasse che i popoli prestassero fede alle parole dei sovrani, ed il di lui gabinetto fu sempre per la capitolazione. Il maggior numero degli officiali della flotta inglese compresero quanta infamia si sarebbe rovesciata sulla loro nazione, giacché il loro ammiraglio era il vero, l’unico autore di tanta violazione del diritto delle genti; e si misero in aperta sedizione.

La Giunta intanto rammentava al governo le leggi della giustizia; ed, invitata a formare una classificazione di trentamila persone arrestate (poiché non meno di tante ve ne erano in tutte le carceri del Regno), disse che doveano esser posti in libertá, come innocenti, tutti coloro i quali non fossero accusati di altro che di un fatto avvenuto dopo l’arrivo dei francesi. La rivoluzione in Napoli non potea chiamarsi «ribellione», i repubblicani non eran ribelli, ed il re non potea imputare a delitto azioni commesse dopo che egli non era piú re di Napoli, dopo che per un diritto tanto legittimo quanto quello della conquista, cioè quanto lo stesso diritto di suo padre e suo, aveano i francesi occupato il di lui regno. Che se i repubblicani avean professate massime le quali parevan distruttrici della monarchia, ciò neanche era da imputarsi loro a delitto, [p. 193 modifica]perché eran le massime del vincitore, a cui era dovere ubbidire. Essi avean professata democrazia, perché democrazia professavano i vincitori: se i vincitori si fossero governati con ordini monarchici, i vinti avrebbero seguite idee diverse. L’opinione dunque non dovea calcolarsi, perché non solamente non era volontaria, ma era necessaria e giusta, perché era giusto ubbidire al vincitore. Il voler stabilire la massima contraria, il pretendere che un popolo dopo la legittima conquista ritenghi ancora le antiche affezioni e le antiche idee, è lo stesso che voler fomentare l’insubordinazione, e coll’insubordinazione voler eternare la guerra civile, la mutua diffidenza tra i governi ed i popoli, la distruzione di ogni morale pubblica e privata, la distruzione di tutta l’Europa. Al ministero di Napoli ciò dispiaceva, perché nella guerra era rimasto perdente; ma, se fosse stato vincitore, se invece di perderlo avesse conquistato un regno, gli sarebbe piaciuto che i nuovi suoi sudditi avessero conservato troppo tenacemente e fino alla caparbietá l’affezione alle antiche massime ed agli ordini antichi? Non avrebbe punito come ribelle chiunque avesse troppo manifestamente desiderato l’antico sovrano? La vera morale dei princípi deve tendere a render facile la vittoria, e non giá femminilmente dispettosa la disfatta.

I princípi della Giunta eran quelli della ragione, e non giá della corte. In questa i partiti eran divisi. Dicesi che la regina non volesse la capitolazione, ma che, fatta una volta, ne volesse l’osservanza: difatti era inutile coprirsi di obbrobrio per perdere due o trecento infelici. Ruffo, autor della capitolazione, voleva lo stesso, e divenne perciò inviso ed alla regina che non avrebbe voluta la capitolazione, ed agli altri, ai quali non dispiaceva che si fosse fatta, ma non volevano che si osservasse. Le istruzioni, che furon date alla Giunta, da persone degne di fede si assicura che furono scritte da Castelcicala. In esse stabilivasi, come massima fondamentale, esser rei di morte tutti coloro i quali avean seguita la repubblica: bastava che taluno avesse portata la coccarda nazionale. Per avere una causa di vendetta, ammetteva che il re era partito; ma, per averne una [p. 194 modifica]ragione, asseriva che, ad onta della partenza, era rimasto sempre presente in Napoli. Il Regno si dichiarava un regno di conquista, quando si trattava di distruggere tutt’i privilegi della Cittá e del Regno, i quali si chiamano quasi in tutta l’Europa «privilegi», mentre dovrebbero esser diritti, perché fondati sulle promesse dei re; ma, quando si trattava di dover punire i repubblicani, il Regno non era mai stato perduto1. Tale fu la logica di Caligola, quando condannava a morte egualmente e chi piangeva e chi gioiva per la morte di Drusilla.

Nelson, unico autore dell’infrazione del trattato, quell’istesso Nelson che avea condotto il re in Sicilia, lo ricondusse in Napoli, ma sempre suo prigioniero; né mai, partendo o ritornando, ebbe la minima cura dell’onor di lui: giacché, partendo, lo tenne in mostra al popolo quasi uom che disprezzasse ogni segno di affezione che questo gli dava; tornando, quasi insultasse ai mali che soffriva. Egli vide dal suo legno i massacri e i saccheggi della capitale. Poco di poi con suo rescritto avvisò i magistrati che egli avea perdonato ai lazzaroni il saccheggio del proprio palazzo, e sperava che gli altri suoi sudditi, dietro il di lui esempio, perdonassero egualmente i danni che avean sofferti! Tutti gl’infelici che il popolo arrestava eran condotti e presentati a lui, tutti pesti, intrisi di polvere e di sangue, spirando quasi l’ultimo respiro. Non s’intese mai da lui una sola parola di pietá. Era quello il tempo, il luogo ed il modo in cui un re dovea mostrarsi al popolo suo? Egli era in mezzo ai legni pieni d’infelici arrestati, che morivano sotto i suoi occhi per la strettezza del sito, per la mancanza di cibi e dell’acqua, per gl’insetti, sotto la piú ardente canicola, nell’ardente clima di Napoli. Egli avea degl’infelici ai ferri finanche nel suo legno.

Con tali principi, la corte dovea stancarsi, e si stancò ben presto, delle noiose cure che la Giunta si prendeva per la salute dell’umanitá. Gli uomini dabbene, che la componevano, furono [p. 195 modifica]allontanati: non rimase altro che Fiore, il quale da piccioli principi era pervenuto alla carica di uditore provinciale in Catanzaro, donde, fuggiasco pel taglione in tempo della repubblica, era ritornato in Napoli, come Mario in Roma, spirando stragi e vendette. Ritornò Guidobaldi, seco menando, come in trionfo, la coorte delle spie e dei delatori, che erano fuggiti con lui. A questi due furono aggiunti Antonio La Rossa e tre siciliani: Damiani, Sambuti ed, il piú scellerato di tutti. Speziale.

La prima operazione di Guidobaldi fu quella di transigersi con un carnefice. Al numero immenso di coloro che egli volea impiccati, gli parve che fosse esorbitante la mercede di sei ducati per ciascuna operazione, che per antico stabilimento il carnefice esigeva dal fisco; credette poter procurare un gran risparmio, sostituendo a quella mercede una pensione mensuale. Egli credeva che almeno per dieci o dodici mesi dovesse il carnefice esser ogni giorno occupato.

La storia ci offre mille esempi di regni perduti e poscia colle armi ricuperati: in nessuno però si ritrovano eguali esempi di tale stolta ferocia. Silla fece morire centomila romani non per altro che per la sua volontá: Augusto depose la sua ferocia colle armi.

Un altro re di Napoli, Ferdinando primo di Aragona, capitolò egualmente coi suoi sudditi, e poscia sotto specie di amicizia li fece tutti assassinare. Ma, mentre commetteva il piú orribile tradimento di cui ci parli la storia, mostrò almeno di rispettare l’apparenza della santitá dei trattati. Mostrarono almeno gli alleati, che li avean garantiti, di reclamarne l’esecuzione. Il nostro storico Camillo Porzio attribuisce a questa scelleraggine le calamitá, che poco dopo oppressero e finalmente distrussero la famiglia aragonese in Napoli.

La vera gloria di un vincitore è quella di esser clemente: il voler distruggere i suoi nemici per la sola ragione di esser piú forte è facile, e nulla ha con sé che il piú vile degli uomini non possa imitare. Una vendetta rapida e forte è simile ad un fulmine che sbalordisce; ma porta seco qualche carattere di nobiltá. Il deliziarsi nel sangue, il gustare a sorsi tutto il calice [p. 196 modifica]della vendetta, il prolungarla al di lá del pericolo e dell’ira del momento, che sola può renderla, se non lodevole, almena scusabile, il vincer la ferocia del popolo e lo stesso terrore dei vinti, e far tutto ciò prostituendo le formole piú sacre della giustizia; ecco ciò che non è né utile né giusto né nobile. La storia ha dato un luogo distinto tra i tiranni ai geni cupi e lentamente crudeli di Tiberio e di Filippo secondo, ai fatti dei quali la posteritá aggiungerá gli orrori commessi in Napoli.

Si conobbe finalmente la legge di maestá, che dovea esser di norma alla Giunta nei suoi giudizi; legge terribile, emanata dopo il fatto e da cui neanche gl’innocenti si potevan salvare. Eccone li principali articoli, quali si sono potuti raccogliere dalle voci piú concordi tra loro e piú consone alle sentenze pronunziate dalla Giunta, poiché è da sapersi che questa legge, colla quale si sono giudicati quasi trentamila individui, non è stata pubblicata giammai.

«Sono dichiarati rei di lesa maestá in primo capo (e perciò degni di morte) tutti coloro che hanno occupato i primari impieghi della sedicente repubblica». Per «primari impieghi» s’intendevano le cariche della rappresentanza nazionale, del direttorio esecutivo, dei generali, dell’alta commissione militare, del tribunale rivoluzionario2. Egualmente erano rei «tutti coloro che fossero cospiratori prima della venuta dei francesi». Sotto questo nome andavano compresi tutti coloro che aveano occupato Sant’Elmo e tutti coloro che erano andati ad incontrare i francesi in Capua ed in Caserta; ad onta che la cessione di Capua fosse stata fatta da autoritá legittima; ad onta che tra i privilegi della cittá di Napoli, riconosciuti dal re, vi fosse quello che, giunto il nemico a Capua, la cittá di Napoli potesse, senza taccia di ribellione, prendere quegli espedienti che volesse, ed invitare anche il nemico; ad onta che, essendo legittima la cessione di Capua e di tutte le province del [p. 197 modifica]Regno a settentrione della linea di demarcazione, un numero infinito di persone, che dimoravano nella capitale, ma che intanto aveano la cittadinanza in quelle province, fossero divenuti legittimamente cittadini francesi; ad onta finalmente che, dopo la resa di Capua, in Napoli fosse cessata ogni autoritá legittima: niun re, niun vicario regio, niun generale, nessuna forza pubblica; tutto era nell’anarchia ed a ciascuno nell’anarchia era permesso di salvar come meglio poteva la propria vita.

Intanto, ad onta di tutto ciò, furon dichiarati rei «tutti coloro che nelle due anarchie avessero fatto fuoco sul popolo dalle finestre»; cioè tutti coloro i quali non avessero sofferto che la piú scellerata feccia del popolo tra la licenza dell’anarchia li assassinasse.

«Tutti coloro che avevano continuato a battersi in faccia alle armi del re, comandate dal cardinal Ruffo, o a vista del re, che stava a bordo degl’inglesi». Questo articolo avrebbe portate alla morte per lo meno ventimila persone, tra le quali eranvi tutti coloro che si trovavan rifugiati a Sant’Elmo, i quali, neanche volendo, poteano piú separarsi dai francesi.

«Tutti coloro che avessero assistito all’innalzamento dell’albero nella piazza dello Spirito santo (perché in quell’occasione si atterrò la statua di Carlo terzo) o alla festa nazionale in cui si lacerarono le bandiere reali ed inglesi, prese agl’insorgenti».

«Tutti coloro che durante il tempo della repubblica aveano, o predicando o scrivendo, offeso il re o l’augusta sua famiglia». La legge del Regno esentava dalla pena di morte chiunque non avea fatto altro che parlare. La legge diceva: «Se è stato mosso da leggerezza, nol curiamo; se da follia, lo compiangiamo; se da ragione, gli siam grati; e, se da malizia, gli perdoniamo, a meno che dalle parole non ne possa nascere un attentato piú grave». Una legge posteriore a questa condannò a morte tutti coloro i quali avean parlato o scritto in un’epoca, nella quale forse nessuno poteva render ragione di ciò che avea fatto. Si vide allora che non bastava non aver offese le leggi per esser sicuro.

«Finalmente tutti coloro i quali in modo deciso avessero dimostrata la loro empietá verso la sedicente caduta repubblica». Quest’ultimo comprendeva tutti. [p. 198 modifica]

Per questo articolo infatti fu condannata a morte la sventurata Sanfelice. Essa non avea altro delitto che quello di aver rivelato al governo la congiura di Baccher, quando era sul punto di scoppiare. Niuna parte avea avuta né nella rivoluzione né nel governo. Questa operazione le fu ispirata dalla piú pura virtú. Non potè reggere all’idea del massacro, dell’incendio e della rovina totale di Napoli, che i congiurati avean progettata. Questa generosa umanitá, indipendente da ogni opinione di governo e da ogni spirito di partito, le costò la vita; e fu spinta la ferocia al segno di farla entrare tre volte in «cappella», ad onta della consuetudine del Regno, la quale ragionevolmente volea che chi avesse una volta sofferta la «cappella» aver dovesse la grazia della vita. Non ha sofferta infatti la pena della morte colui che per ventiquattr’ore l’ha veduta inevitabile ed imminente? Eppure, rompendosi ogni legge di pietá, ogni consuetudine del Regno, la sventurata Sanfelice, dopo un anno, fu decollata senza delitto!

«Coloro che erano ascritti alla sala patriotica, benché colle loro mani istesse avessero segnata la loro sentenza di morte (non si comprende perché: un’adunanza patriotica è un delitto in una monarchia, perché è rivoluzionaria; in un governo democratico, è un’azione indifferente), pure Sua Maestá, per la sua innata clemenza, li condanna all’esilio in vita colla perdita de’ beni, se abbiano prestato il giuramento; quelli che non l’hanno prestato, sono condannati a quindici anni di esilio».

«Finalmente coloro, i quali avessero avute cariche subalterne o non avessero altri delitti, saranno riserbati all’indulto che Sua Maestá concederá». Questo indulto fu immaginato per due oggetti: il primo era quello di far languire un anno nelle carceri coloro che non aveano alcun delitto. — Mio figlio è innocente — diceva una sventurata madre a Speziale. — Ebbene — rispondeva costui, — se è innocente, avrá l’onore di uscir l’ultimo. — Il secondo oggetto era quello di condannare almeno nell’opinione pubblica, con un perdono, anche coloro che per la loro innocenza doveano essere assoluti. [p. 199 modifica]

Non avea forse ragione la regina, quando, se è vero ciò che si dice, si opponeva a questa prostituzione di giudizi?

Io vorrei che si esaminassero li giudizi della Giunta e di coloro che dirigevan la Giunta, non colle massime della ragione e della giustizia naturale, non colle massime della stessa giustizia civile, poiché neanche con queste si troverebbe ragion di condannar come ribelli coloro i quali non avean fatto altro che ubbidire ad una forza legittima e superiore, alla quale era stato costretto a cedere lo stesso re; ma colle massime dell’interesse del re. Io non dirò che la giustizia è il primo interesse di un re: ammetto anzi che l’interesse del re è la norma della giustizia. Ed anche allora, chi potrebbe assolver molti (io dico «molti», e sono ben lontano dal dir «tutti»: sono ben lontano dal credere tutt’i membri della Giunta simili a Speziale, e forse taluno non ha altra colpa che quella di non esser stato abbastanza forte contro i tempi); chi potrebbe, dico, assolver molti di aver non solo conculcata la giustizia, ma anche tradito il re?

Quando Silla fece scannare seimila sanniti, disse al senato, allarmato da’ gemiti e dalle grida di quest’infelici: — Ponete mente agli affari: son pochi sediziosetti che si correggono per ordine mio. — Silla era piú grande e forse anche men crudele.

Se coloro che consigliavano il re gli avessero parlato il linguaggio della saviezza e gli avessero fatto scrivere un editto, in cui si fosse ai popoli parlato cosí: «Coloro i quali han seguito il partito della repubblica, ora che questo partito è caduto, han pensato di aver bisogno di una capitolazione per la loro salvezza. Se essi avessero conosciuto il mio cuore, avrebbero compreso che questa capitolazione era superflua. Questo errore è stato la causa di tutt’i loro traviamenti. Obblio tutto. Possano cessare tutt’i partiti e riunirsi a me per il vero bene della patria! Possa questa generositá far loro comprendere il mio cuore e rendermi degno del loro amore! Possano le tante vicende e le tante sventure sofferte renderli piú saggi! Se, ad onta di tutto ciò, vi è taluno a cui il nuovo ordine di cose non piaccia, siagli permesso partire. Ma, o che parta o che resti, i suoi beni, la sua persona, la sua famiglia saranno intatte, ed [p. 200 modifica]in me non troverá che un padre»; in quel momento,... momento forsi di disinganno,... un proclama di questa natura avrebbe riuniti tutti gli animi. La nazione non sarebbe stata distrutta da una guerra civile;... l’amor del popolo avrebbe prodotta la sicurezza del re e la forza del Regno...

Se oggi il regno di Napoli si trova diviso, desolato, pieno di odii intestini, quasi sul punto di sciogliersi, perché il re non dice ai suoi ministri e suoi consiglieri: — Voi siete stati tanti traditori! voi colpate alla mia rovina! — ?

L’esecuzione di questa legge spaventò finanche gli stessi carnefici della Giunta. Essa avrebbe fatto certamente rivoltare il popolo. La stessa crudeltá rese indispensabile la moderazione. Vennero da Palermo le note de’ proscritti; ma rimase la legge, affinché si potesse loro apporre un delitto.

Le sentenze erano fatte prima del giudizio. Chi era destinato alla morte dovea morire, ancorché il preteso reo fosse minore.

Tutti li mezzi si adoperavano per ritrovare il delitto; nessuno se ne ammetteva per difendere l’innocenza. Il nome del re dispensò a tutte le formole del processo, quasi che si potesse dispensare alla formola senza dispensare alla giustizia. Ventiquattro ore di tempo si accordavano alla difesa: i testimoni non si ammettevano, si allontanavano, si minacciavano, si sbigottivano, talora anche si arrestavano; il tempo intanto scorreva, e l’infelice rimaneva senza difesa. Non confronto tra i testimoni, non ripulse di sospetti, non ricognizione di scritture si ammettevano; non debolezza di sesso, non imbecillitá di anni potevan salvare dalla morte. Si son veduti condannati a morte giovinetti di sedici anni; giudicati, esiliati fanciulli di dodici. Non solo tutt’i mezzi della difesa erano tolti, ma erano spenti tutt’i sensi di umanitá.

Se la Giunta, per invincibile evidenza d’innocenza, è stata talora quasi costretta ad assolvere suo malgrado un infelice, si è veduto da Palermo rimproverarsi di un tal atto di giustizia, e condannarsi per arbitrio chi era stato o assoluto o condannato a pena molto minore. Dal processo di Muscari nulla si rilevava che potesse farlo condannare; ma troppo zelo avea mostrato [p. 201 modifica]Muscari per la repubblica, e si voleva morto. La Giunta, dicesi, ebbe ordine di sospender la sentenza assolutoria e di non decidere la causa finché non si fosse ritrovata una causa di morte. A capo di due mesi è facile indovinare che questa causa si trovò. Pirelli, uno dei migliori uomini che avesse la patria, uno dei migliori magistrati che avesse lo Stato, anche in tempo del re, fu dalla Giunta assoluto: i trenta di Atene quasi arrossirono di condannare Focione. Pirelli era però segnato tra le vittime, e da Palermo fu condannato ad un esilio perpetuo. Michelangelo Novi era stato condannato all’esilio; la sentenza era stata giá eseguita, si era giá imbarcato, il legno era per far vela: giunge un ordine da Palermo, e fu condannato al carcere perpetuo nella Favignana. Gregorio Mancini era stato giá giudicato, era stato giá condannato a quindici anni di esilio; di giá prendeva commiato dalla moglie e dai figli: un ordine di Speziale lo chiama, e lo conduce... dove?... alla morte. Altre volte si era detto che le leggi condannavano ed i re facevano le grazie: in Napoli si assolveva in nome della legge e si condannava in nome del re.

Intanto Speziale, a cui venivano particolarmente commesse le persone che si volevan perdute, nulla risparmiava né di minacce né di suggestioni né d’inganni per servire alla vendetta della corte. Nicola Fiani era suo antico amico; Nicola Fiani era destinato alla morte, ma non era né convinto né confesso. Speziale si ricorda della sua antica amicizia: dal fondo di una fossa, ove il povero Fiani languiva tra’ ferri, lo manda a chiamare; lo fa condurre sciolto, non giá nel luogo delle sedute della Giunta, ma nelle sue stanze. Nel vederlo gli scorrono le lagrime; lo abbraccia: — Povero amico! a quale stato ti veggo io ridotto! Io sono stanco di piú fare la figura di boia. Voglio salvarti. Tu non parli ora al tuo giudice; sei coll’amico tuo. Ma, per salvarti, convien che tu mi dica ciò che hai fatto. Queste sono le accuse contro di te. In Giunta fosti saggio a negare; ma ciò che dirai a me non lo saprá la Giunta... — Fiani presta fede alle parole dell’amicizia; Fiani confessa... — Bisogna scriverlo; servirá per memoria... — Fiani scrive. È inviato al suo carcere, e dopo due giorni va alla morte. [p. 202 modifica]

Speziale interrogò Conforti. Dopo avergli domandato il suo nome e la carica che nella repubblica avea ottenuta, lo fa sedere. Gli fa sperare la clemenza del re; gli dice che egli non avea altro delitto che la carica, ma che una carica eminente era segno di «patriotismo», e perciò delitto in colora che erano stati, senza merito e senza nome, elevati per sola favore di fazione rivoluzionaria. Conforti era tale, che ogni governo sarebbe stato onorato da lui. Indi gli parla delle pretensioni che la corte avea sullo Stato romano. — Tu conosci — gli dice — profondamente tali interessi. — La corte ha molte memorie mie — risponde Conforti, — Sí, ma la rivoluzione ha fatto perdere tutto. Non saresti in grado di occupartici di nuovo? — E, cosí dicendo, gli fa quasi sperare in premio la vita. Conforti vi si occupa; Speziale riceve il lavoro del rispettabile vecchio; e, quando ne ebbe ottenuto l’intento, lo mandò a morire3.

Qual mostro era mai questo Speziale! Non mai la sua anima atroce ha conosciuto altro piacer che quello di insultar gl’infelici. Si dilettava passar quasi ogni giorno per le prigioni a tormentare, opprimere colla sua presenza coloro che non poteva uccidere ancora. Se avea il rapporto di qualche infelice morto di disagio o d’infezione, inevitabile in carceri orribili, dove gli arrestati erano quasiché accatastati, questo rapporto era per lui l’annunzio di «un incomodo di meno». Un soldato insorgente uccise un povero vecchio, che per poco si era avvicinato ad una finestra della sua carcere a respirare un’aria meno infetta: gli altri della Giunta volean chieder conto di questo fatto: — Che fate voi? — disse Speziale; — costui non ha fatto altro che toglierci l’incomodo di fare una sentenza. — La moglie di Baffa gli raccomanda il suo marito... — Vostro marito non morrá — le diceva Speziale; — siate di buon animo: [p. 203 modifica]egli non avrá che l’esilio. — Ma quando? — Al piú presto. — Intanto scorsero molti giorni: non si avea nuova della causa di Baffa. La moglie ritorna da Speziale, il quale si scusa che non ancora avea, per altre occupazioni, potuto disbrigar la causa del marito; e la congeda confermandole le stesse speranze che altra volta le avea date. — Ma perché insultare questa povera infelice? — gli disse allora uno che era presente al discorso... Baffa era stato giá condannato a morte; ma la sentenza s’ignorava dalla moglie. Chi può descrivere la disperazione, i lamenti, le grida, i rimproveri di quella moglie infelice? Speziale con un freddo sorriso le dice: — Che affettuosa moglie! Ignora finanche il destino di suo marito. Questo appunto io voleva vedere. Ho capito: sei bella, sei giovine, vai cercando un altro marito. Addio. —

Sotto la direzione di un tale uomo, ciascuno può comprendere quale sia stata la maniera con cui sieno stati tenuti i carcerati. Quante volte quegli infelici hanno desiderata ed invocata la morte!... Ma la mia mente è stanca di piú occuparsi de’ mali dell’umanitá... Il mio cuore giá freme!

Note

  1. Esistono ancora ambidue gli editti: col primo il Regno si dichiara regno di conquista; col secondo si dichiara che il re non l’avea mai perduto.
  2. Subitoché in Napoli non vi era stata ribellione, non vi era piú differenza tra coloro che aveano occupate cariche e coloro che avean solo riconosciuta la repubblica. Tutti doveano essere o egualmente rei o egualmente innocenti.
  3. Questo fatto sembra tanto incredibile, che mi sarei astenuto dal narrarlo, se non mi fosse stato contestato da moltissimi degni di ogni fede. Ma, quando anche questi mentissero, gran Dio! quanto odio pubblico si è dovuto meritare, prima di mover gli uomini ad immaginare, a spacciare, a credere tali orrori!