Saggio di racconti/XI/V
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ossia l’Adolescenza d’un Artista nel secolo XVI
Una bottega d’orefice
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Alla coscia del Ponte vecchio, sulla destra dell’Arno, stava un orefice zio di Francesco, e teneva in bottega tre o quattro giovani disegnatori, tra i quali il Diacceto. Ivi praticava anche il Naldini, e tutti con assiduità studiavano l’arte sui più bei lavori dei maestri che fiorivano in quel tempo, come di Michelangiolo Buonarroti e di Andrea del Sarto. Nei loro colloqui ragionavano sempre delle delizie e della storia dell’arte, rammemorando com’ella fosse risorta e perfezionata in Firenze per quei rari ingegni di Cimabue, di Giotto e di Masaccio, e considerando a che alto punto l’avevano condotta Leonardo da Vinci e Raffaello d’Urbino.... Dei quali due, avvegnachè fossero morti di pochi anni, piangevano amaramente la perdita, specialmente di Raffaello, che soli 37 anni aveva vissuto, e nonostante il mondo era pieno delle sue glorie, e sarebbe bastato uno solo dei suoi capi-lavori per eternare il suo nome. E riflettevano talora come quasi sempre fosse stata umile la nascita dei più chiari fra tanti artefici e come travagliata l’infanzia, e quanti ostacoli avessero dovuto combattere prima di poter secondare liberamente l’ingegno. I più luminosi tra questi esempi erano Giotto, il Cronaca, il Sansovino, il Franciabigio, il Beccafumi, e tanti altri, i quali o dal pasturare le pecore, o dal maneggiare la mestola e la pialla, o dal contrastare con la povertà, erano saliti a grandissima rinomanza o nella pittura o nella scultura o nell’architettura, e spesso in tutte tre insieme queste arti. Con nuovo diletto narravano anche le nobili gare e i gloriosi concorsi dei Brunelleschi, dei Ghiberti, dei Donatelli; e quasi sempre finivano i loro colloqui col nome di quel miracolo vivente del Buonarroti, il quale pareva destinato a raccogliere in sè tutte le passate glorie delle belle arti, ed a fare più grande la patria appunto quand’era per cadere quel generoso governo di popolo che aveva ispirato e commesso opere di tanta magnificenza. Da così fatte reminiscenze traevano, oltre al diletto, incoraggimento ed emulazione grandissima; e l’uno aiutava l’altro nell’operare, come s’erano infiammati a vicenda nel dire. Così anche nelle altre botteghe i giovani ed i fanciulli, unendo all’amor dello studio la illibatezza dei costumi, la serenità dell’animo e la modestia, si godevano lo scambievole affetto, e si preparavano a sostenere il decoro della patria e dell’arte.
Una mattina Michelangiolo de’ Rossi, in compagnia del figliuolo entrò nella bottega dell’orefice, e salutato allegramente il maestro: «Amico, gli disse, eccovi un altro scolare, se lo accettate. Il mio Francesco dice addio a’ velluti, perchè ha più simpatia per le tele; che ve ne pare?» — «Che sia il benvenuto! rispose il maestro. C’è posto anche per lui; e non è già nuovo il suo nome in questa bottega,» additando il Diacceto che faceva le maraviglie di tanta novità, e se la discorreva a cenni con Francesco. Il qual Francesco non era più il fanciullo malinconico e taciturno di poco fa; ma tutto ringalluzzato, a testa alta, sorridendo al padre, al maestro, ai giovani, non vedeva l’ora di mettersi davanti un cartone del Buonarroti e di ricopiarlo. Tutti gli fecero grandi feste, ed esso a loro, e il padre, dopo aver ragionato alquanto in disparte con l’orafo, salutando cortesemente, con un abbraccio al figliuolo e con una stretta di mano al Diacceto, se n’andò contento pe’ fatti suoi.
Allora il Diacceto, che non sapeva nulla dell’accaduto in casa di Francesco, gli fece un visibilio di congratulazioni e di dimande, e il fanciullo narrando ingenuamente ogni cosa riempì tutti di tenerezza. Si collocò finalmente a studiare, e diventò subito la delizia del maestro e dei suoi compagni.
Di mano in mano che egli andava crescendo, ripigliava il colorito di sanità, e gli tornava la robustezza del corpo. Dipoi manifestò un’indole ardimentosa e bizzarra; e in pochi mesi fece tanto profitto nel disegno, che tutti ne stupivano.
Pensate se l’Anna era lieta a vedersi rivivere sotto gli occhi il fratello, a udire le lodi che di lui facevano il maestro e il Diacceto, e ad accorgersi della segreta contentezza del padre! Francesco poi conoscendo che tanto bene gli era venuto da lei, nutriva per essa un affetto maraviglioso; e lei chiamava il suo angiolo tutelare.... Oh! sì, Francesco, una sorella amorosa e un angiolo tutelare. Felice tu che l’avesti! V’è chi non gode di quest’affetto; e cercandone altri, si studia di riempire il vuoto della sua anima. Ah! dopo quello dei genitori, altro affetto non v’è che sia del fraterno più dolce, più puro e più fidato!