due, avvegnachè fossero morti di pochi anni, piangevano amaramente la perdita, specialmente di Raffaello, che soli 37 anni aveva vissuto, e nonostante il mondo era pieno delle sue glorie, e sarebbe bastato uno solo dei suoi capi-lavori per eternare il suo nome. E riflettevano talora come quasi sempre fosse stata umile la nascita dei più chiari fra tanti artefici e come travagliata l’infanzia, e quanti ostacoli avessero dovuto combattere prima di poter secondare liberamente l’ingegno. I più luminosi tra questi esempi erano Giotto, il Cronaca, il Sansovino, il Franciabigio, il Beccafumi, e tanti altri, i quali o dal pasturare le pecore, o dal maneggiare la mestola e la pialla, o dal contrastare con la povertà, erano saliti a grandissima rinomanza o nella pittura o nella scultura o nell’architettura, e spesso in tutte tre insieme queste arti. Con nuovo diletto narravano anche le nobili gare e i gloriosi concorsi dei Brunelleschi, dei Ghiberti, dei Donatelli; e quasi sempre finivano i loro colloqui col nome di quel miracolo vivente del Buonarroti, il quale pareva destinato a raccogliere in sè tutte le passate glorie delle belle arti, ed a fare più grande la patria appunto quand’era per cadere quel generoso governo di popolo che aveva ispirato e commesso opere di tanta magnificenza. Da così fatte reminiscenze traevano, oltre al diletto, incoraggimento ed emulazione grandissima; e l’uno aiutava l’altro nell’operare, come s’erano infiammati a vicenda nel dire. Così anche nelle altre botteghe i giovani ed i fanciulli,