Saggio critico sul Petrarca/VI. Situazioni petrarchesche

VI. Situazioni petrarchesche

../V. Forma petrarchesca ../VII. Situazioni petrarchesche IncludiIntestazione 13 settembre 2023 75% Da definire

V. Forma petrarchesca VII. Situazioni petrarchesche
[p. 101 modifica]

VI

SITUAZIONI PETRARCHESCHE

i. Uso ed abuso della riflessione.


La forma petrarchesca, come la siamo andati descrivendo, quella certa ingenita delicatezza e misura di sentire aiutata dallo studio degli antichi, è ancora per il critico qualche cosa d’indeterminato. Se vogliamo uscir dall’astratto, dobbiamo coglierla in questo o quel momento della vita, in questa o quella disposizione d’animo, in questa o quella specie di contenuto: allora la vedremo uscir fuori nella ricchezza delle sue differenze e delle sue gradazioni.

C’è nel Petrarca una poetica prestabilita, ma solo per la parte tecnica, la scelta e il collocamento delle parole, l’ordito del periodo, la struttura del verso, l’intreccio delle rime. Anche nel contenuto c’è una parte data, un certo numero d’idee allora in voga, sull’amore, sulla donna, ecc. Ma quanto alla formazione del contenuto, vale a dire del materiale che gli si presentava, in che è posta propriamente la forma nel suo piú alto significato, procede spontaneamente, e non sospetta neppure che ci possano esser regole. Fa cosí o cosí secondo la natura del suo ingegno, e secondo che nel punto in cui scrive è impressionato. La natura di un contenuto poetico, come si presenta al poeta in questa o quella disposizione del suo animo, genera la situazione, in questa o quella poesia.

Le poesie che non vengono dall’animo, dal di dentro, ma [p. 102 modifica]sono un prodotto meccanico e artificiale, non hanno situazione, e perciò non hanno forma, nel senso elevato di questa parola.

L’anima del Petrarca è ricca di sentimenti e impressioni, e perciò la sua poesia è ricca di situazioni.

Poiché nella sua vita amorosa non c’è mai un io voglio, la situazione in fondo in fondo ha del comico, appena dissimulato. Questa irresolutezza è per lo piú seria, perché genera strazio e ansietá; ma quando il poeta l’esprime nella sua semplicitá direttamente, il comico ne scoppia suo malgrado. In un sonetto racconta d’un suo incontro con Laura, la quale sembratagli piú umana dell’usato, si fece animo a volerle dichiarare la sua fiamma. Ma è quel tale voglio (son. CXVII):

                                         Allor raccolgo l’alma, e poi ch’i’ aggio
Di scovrirle il mio mal preso consiglio.
Tanto le ho a dir che ’ncominciar non oso.
     
E una ironia che senz’accorgersene fa di sé stesso. Supponete un timido adolescente, che innanzi alla sua diva sta goffo, ed apre la bocca e resta con la bocca aperta; l’imbroglio che il volere e non osare dipinge sulla sua fisonomia produce un riso involontario. Un uomo di spirito con un mezzo riso di falso compatimento potrebbe dirgli: — Poveretto! avevi tanto a dirle, che non hai osato cominciare — . Questa è la scusa ironica, con la quale il Petrarca, per uscir dal ridicolo, ci cade piú presto. Ripensandoci sopra, s’indispettisce con una stizza un po’ comica, che si sforza d’esser tragica; e se la prende con la lingua, con le lacrime, co’ sospiri, che non voglion fare il loro ufficio innanzi a Laura, mentre lungi da lei lo tormentano sempre:
                                         Perch’io t’abbia guardato di menzogna
A mio podere, ed onorato assai,
Ingrata lingua, giá però non m’hai
Renduto onor, ma fatto ira e vergogna:
     Che, quando piú ’l tuo aiuto mi bisogna
Per dimandar mercede, allor ti stai
Sempre piú fredda; e se parole fai.
Sono imperfette, e quasi d’uom che sogna.
     
[p. 103 modifica]
                                         Lagrime triste, e voi tutte le notti
M’accompagnate, ov’io vorrei star solo:
Poi fuggite dinanzi alla mia pace.
     E voi si pronti a darmi angoscia e duolo,
Sospiri, allor traete lenti e rotti.
Sola la vista mia del cor non tace.
     

Il Petrarca rassomiglia ad un povero diavolo, che, fattane una grossa, si ritira a casa, e si sfoga in veste da camera, e se la piglia con la testa: — E che testa di zucca che ho io! — . Va errando per la selva Ardenna, e col pensiero a Laura gli parea di veder non pur lei, ma con essa insieme le sue amiche. Niente di piú poetico che questo gioco d’immaginazione. Un lettore prosaico potrebbe riflettere: — Forse erano alberi, e li prendea per donne — ; e la situazione caduta nella realtá diviene ridicola per il contrasto subitaneo fra il parere e l’essere: — Parevano donne, ed erano alberi — . Ma il bello è che il Petrarca racconta la sua avventura in modo da metter proprio in rilievo questo contrasto, ed eccitare senza volerlo un riso irresistibile (son. CXXIV):

                                    Io l’ho negli occhi; e veder seco parme
Donne e donzelle, e sono abeti e faggi.
     

«O pensier miei non saggi!», dice il poeta, disposto a rider di se stesso.

Ma il comico è ben lontano dall’intenzione del Petrarca, il quale anzi tende al serio, e fino al tragico: ci capita per sorpresa. Il piú delle volte è un po’ nel caso di Amleto. Riflette troppo: tutto il movimento è nel suo cervello; al di fuori le cose rimangono nello stesso modo. Senza un punto fermo intorno a cui moversi, in opposizione con sé stesso, palleggiato dalle impressioni, la riflessione viene, après coup, a scusa e spiegazione: onde nasce una specie di sofistica dell’amore. Hai riflessioni staccate, quei cento considerandi che non mancano mai a chi sottilizza su d’un oggetto isolato dal resto e visto da un punto solo. Cosi queste riflessioni sono contraddittorie, [p. 104 modifica]ingegnose, talora assurde, sempre parziali, come le sue impressioni; e, per dirlo alla maniera tedesca, sono l’intelletto che separa, non la ragione che unifica. Di che deriva in lui l’abito poco poetico di mettersi l’impressione o il fenomeno amoroso dirimpetto, e con curiositá filosofica domandarsene la spiegazione. Leggete il sonetto XXXIII:

                                         Se mai foco per foco non si spense,
Né fiume fu giammai secco per pioggia;
Ma sempre l’un per l’altro simil poggia,
E spesso l’un contrario l’altro accense;
     Amor, tu ch’i pensier nostri dispense.
Al qual un’alma in duo corpi s’appoggia,
Perché fa’ in lei con disusata foggia
Men, per molto voler, le voglie intense?
     Forse, siccome ’l Nil, d’alto caggendo,
Col gran suono i vicin d’intorno assorda;
E ’l Sol abbaglia chi ben fiso il guarda;
     Cosi ’l desio, che seco non s’accorda,
Nello sfrenato obbietto vien perdendo,
E, per troppo spronar, la fuga è tarda?
     

Cerca di spiegare perché, desiderando tanto di parlare a Laura, ammutolisce innanzi a lei; e dá in sottigliezze. Perciò in luogo di rappresentare il suo stato, lo isola dalle condizioni particolari che lo fanno essere il suo stato, e lo considera in sé, astrattamente e filosoficamente. Eccovi il sonetto XI:

                                         Io mi rivolgo indietro a ciascun passo
Col corpo stanco, ch’a gran pena porto;
E prendo allor del vostr’aere conforto,
Che ’l fa gir oltra, dicendo: Oimè lasso.
     Poi ripensando al dolce ben ch’io lasso,
Al cammin lungo ed al mio viver corto,
Fermo le piante sbigottito e smorto.
E gli occhi in terra lagrimando abbasso.
     Talor m’assale in mezzo a’ tristi pianti
Un dubbio, come posson queste membra
Dallo spirito lor viver lontane.
     
[p. 105 modifica]
                                         Ma risponderai Amor: Non ti rimembra
Che questo è privilegio degli amanti,
Sciolti da tutte qualitati umane?
     

Allontanandosi da Laura, tutto ad un tratto lo prende un dubbio, come, essendo il suo spirito con Laura, posson viver le membra prive di spirito: e con questa sottigliezza guasta un sonetto cominciato con tanta magnificenza ne’ suoi quartetti. Anche quando rappresenta direttamente il suo stato, non può tenersi per la inveterata abitudine dal generalizzarlo ed esprimerlo come la maggiore d’un sillogismo; la qual maggiore spesso comparisce con pretensiosa civetteria nell’ultimo verso, quasi un colpo tenuto in riserva da sorprendere e stordire, come:

                                    Chi può dir com’egli arde, è ’n picciol foco.

Che bel fin fa chi ben amando more.

Ch’a gran speranza uom misero non crede.
     

La natura del sonetto contribuisce a quest’abuso della riflessione, perché in que’ benedetti quattordici versi è cosa facilissima svolgere un pensiero unico, capace di misura e di analisi, ed è difficile rappresentare il sentimento nelle sue onde «capricciose ed immensurabili». E, secondo le regole, gli uditori soglion batter le mani e gridar: bravo!, quando, quale si sia il sonetto, l’ultimo è un bel verso, che contenga un bel pensiero, come si dice, cioè un pensiero concettoso. Da questo abuso della riflessione sono nate nella forma le sentenze e nel contenuto i concetti: e d’ambedue questi difetti non è penuria nel Petrarca. Si può dire che il maggior numero de’ suoi sonetti in vita di Madonna Laura sono parte freddure, parte concetti, spesso riflessioni galanti, ingegnose, ricercate, un di lá dell’impressione, l’impressione generalizzata e spiegata.

Non voglio esser troppo severo, so che certe teorie estetiche condannano questo stato riflesso; si può discutere se sia piú o meno poetico, ma certo ha esso pure la sua poesia. Vero è [p. 106 modifica]che la poesía dee rappresentar l’uomo nell’atto dell’azione o della passione, l’uomo nell’esercizio della vita. Pure, in certi tempi e in certe poetiche penetra una ragione superiore che s’intromette anche in mezzo all’azione, con una coscienza d’essa piú o meno chiara. Il che avviene principalmente a quelli che non si lasciano ire alle loro impressioni immediate, ma riflettono, pensano ed esitano, come è il caso del Petrarca. Allora può il poeta — perché dico: può? — è costretto a rappresentare l’azione, come si presenta a lui, in tutto l’ondeggiamento delle impressioni e delle riflessioni, con quel misto di coscienza, d’istinto e di sentimento che fermenta nell’animo. Ma a patto che l’azione e la passione, come in Amleto, rimanga il sostanziale, il fondo della situazione, e che la riflessione ci penetri quasi come una malattia, o, se volete, una qualitá dello spirito. In questo senso la riflessione è altamente tragica e poetica; non è il capriccio o l’impotenza del poeta, ma è obbiettiva, è la natura stessa dell’anima che si vuol rappresentare. A quest’indirizzo appartiene una delle piú notabili delle sue canzoni.1 [p. 107 modifica]

Vuol rappresentare appunto l’interno si e no, il desio che lo porta verso Laura e la riflessione che lo alza verso Dio. Questo fenomeno è subito fatto generale: cos’è? è la lotta antica, [p. 108 modifica]fatale, fra il senso e la ragione. Ed ecco mettere il capo fuori la personificazione, inevitabile, una volta che si ha a fare col generale e l’astratto. I due pensieri che giostrano al di dentro [p. 109 modifica]lui sono portati al di fuori e personificati. La ragione è un personaggio eloquente e gli fa un bel discorso; il senso non parla, ma opera, lo stimola, lo incalza, non gli lascia mai tregua. Com'è naturale, le parole restano parole, ed il senso vince. Il poeta si vede la morte allato e le corre incontro; soggiace non per errore, ma per debolezza. Il concetto di tutta la poesia lo trovate nell'ultimo verso, secondo il solito, in forma di sentenza, traduzione felice del noto: video meliora proboque, deteriora sequor:

                                    E veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio.      


[p. 110 modifica]Ma questa generalità è la scorza della poesia; il vero interesse è nel contenuto, in quello che la ragione dice e in quello che il senso fa: perché, sotto l'apparenza d'una lotta tra dueforze, il poeta in realtà esprime la sua propria lotta con pensieri e con immagini che riflettono schiettamente lo stato in cui era allora il suo animo. Il poeta si sente trascinare verso la sua perdizione; sente che è ancor tempo di arrestarsi, che fra poco sarà troppo tardi, vorrebbe e non può. Un uomo ingenuo che si trovasse in questo stato, e ci pensasse su, ne resterebbe maravigliato, crederebbe che questo avvenga solo a lui, e lo rappresenterebbe con quella candida semplicità, con quella schiettezza cosi gustosa, che nasce dalla ignoranza, dalla novità e vivacità delle impressioni. Ma il cristianesimo avea già resi familiari gli animi con l'astratto; oltre a ciò il Petrarca congiungeva a molta esperienza della vita una fina coltura. Di rado trovi in lui la maraviglia di quello che sente; il più spesso lo capisce e lo spiega. Qui nel proprio stato vede subito lo stato di tutti, l'opposizione tra lo spirito e la carne, tra la ragione e la passione; volgarizzata dal cristianesimo, e fondamento della Divina Commedia. Le parole che mette in bocca alla ragione sono concetti fatti comuni dalla religione: la caducità dei piaceri terreni e l'eternità del celeste, un sublime negativo ed un sublime positivo. Ma il sublime dei due concetti svanisce sotto un nembo di fiori: tanto la forma è luccicante. Manca al poeta il senso del sublime: appena giugne al nobile ed al magnifico, Il piacere sensuale è ben rappresentato e ti risveglia quasi l’immagine d'una civettuola traditora:

                                                   quel falso dolce fuggitivo,
Che 'l mondo traditor può dare altrui.
     
Ma la sua labilità, che dovrebbe produrre con l'improvvisa scomparsa l'effetto del sublime, è rappresentata astrattamente, come una qualità:
                                    Che d'ogni pace e di fermezza è privo.      
[p. 111 modifica]
Il piacere celeste è un di lá dell’immaginazione, e, come tale, sublime, come ne’ bei versi del Manzoni:
                                              Che il desiderio avanza.
Ove è silenzio e tenebre
La gloria che passò.
     
Ma il nostro poeta cerca di farcelo concepire, e perciò annienta il suo effetto estetico:
                                    Che dove, del mal suo quaggiú si lieta,
Vostra vaghezza acqueta
Un mover d’occhio, un ragionar, un canto;
Quanto fia quel piacer, se questo è tanto?
     
A buon conto: se il piacere mondano è si grande, quanto non dee esser maggiore il piacere celeste? È un argomento dal meno al piú, buono in logica, ma infelicissimo in estetica: perché, esteticamente, ciò che fa impressione, è il mover d’occhio, il canto; dove l’altro piacere rimane un pensato, spoglio d’ogni effetto poetico. Vero è però che il poeta, non riuscitogli di farlo sublime, si sforza di renderlo bello, con l’immagine del cielo, dov’è la sua sede:
                                    Mirando il ciel che ti si voi ve intorno
Immortal ed adorno.
     
Nel che Dante Io avanza di semplicitá e di naturalezza, ed il Tasso d’efficacia e di calore. Dante dice:
                                    Chiamavi il ciel che intorno vi si gira,
Mostrandovi le sue bellezze eterne.
     
E il Tasso, nella patetica risposta di Sofronia ad Olindo:
                                    Mira il ciel com’è bello, e mira il sole,
Che a sé par che ne inviti e ne console.
     
[p. 112 modifica]
Del resto, questo discorso della ragione non manca d’un certo calore di penna; d’un’efficacia tutta rettorica. Ciò che è beneimmaginato, è di non far parlare il senso, che sarebbe stata inescusabile pedanteria; ed avrebbe fatto della canzone una poesia allegorica ed astratta. Mentre la ragione mette in opera tutta la sua arte rettorica, il poeta sente il morso del senso. L’una parla con la mente, l’altro siede dentro l’alma, e preme il core di desio e lo pasce di speranza. Ci è un verso che rappresenta con cupa energia la sua forza contro gli sforzi dell’amante:
                                    E s’io l’occido, piú forte rinasce.      
Il quale ricorda, per la struttura e per il concetto, il famoso verso di Dante:
                                    E dopo il pasto ha piú fame che pria.      
La ragione gli pone innanzi degli argomenti, il senso gli pone innanzi Laura:
                                    Ed agli occhi dipigne
Quella che sol per farmi morir nacque,
Perché a me troppo ed a sé stessa piacque.
     
Il sentimento dominante della canzone, espresso come sentenza nell’ultimo verso, è la disperazione, la coscienza della sua impotenza contro l’amore. Il quale non l’inganna, ma lo sforza:
                                         Quel ch’i’ fo, veggio; e non m’inganna il vero
Mal conosciuto, anzi mi sforza Amore.
     
Sa che i beni promessi dall’amore sono ombre, che in un’ora svaniscono:
                                    Ond’io, perché pavento
Adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
Vorre’ il vero abbracciar, lassando l’ombre.
     
[p. 113 modifica]
Lo sa e non può, ed il patetico della canzone è nella straziante coscienza del suo stato:
                                    Aver la morte innanzi gli occhi parme;
E vorrei far difesa, e non ho l’arme.
     
Il che gli trae qualcuno di quei gridi eloquenti, che vengono dal cuore. Udite il principio:
                                         I’ vo pensando e nel pensier m’assale
Una pietá si forte di me stesso,
Che mi conduce spesso
Ad altro lagrimar ch’i’ non soleva.
     
E un principio che giá ti commuove, perché ti fa supporre tutta la storia delle sue contraddizioni, giá presenti all’anima confusamente prima di prender la penna. Pensava che, sentendosi ogni giorno piú presso alla sua perdizione, avea tante volte chiesto a Dio quell’ale:
                                    Con le quai del mortale
Career nostr’intelletto al ciel si leva.
     
E sempre invano:
                                    Ma infin a qui niente mi rileva
Prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia.
     
La miseria del suo stato l’intenerisce, piange sopra sé stesso, come non avea mai pianto in vita sua; poi succede un altro sentimento: quel terribile «ben ti sta», he l’uomo si gitta in viso:
                                    Che chi possendo star, cadde tra via,
Degno è che mal suo grado a terra giaccia.
     
[p. 114 modifica]
Questa fiacchezza l’umilia; gli pare che tutti gliela leggano sul viso, ed appunto perché gli pare, arrossisce, ed il rossore l’accusa:
                                    E sento ad or ad or venirmi al core
Un leggiadro disdegno, aspro e severo,
Ch’ogni occulto penserò
Tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede.
     

Conoscere il male e non potere evitarlo, deliberare sempre e non conchiuder mai, è l’ultimo grido della canzone, è il ritratto del Petrarca:

                                         Canzon, qui sono; ed ho ’l cor via piú freddo
Della paura, che gelata neve.
Sentendomi perir senz’alcun dubbio;
Che pur deliberando, ho volto al dubbio
Gran parte ornai della mia tela breve:
Né mai peso fu greve
Quanto quel ch’i’ sostegno in tale stato;
Che con la morte a lato
Cerco del viver mio novo consiglio,
E veggio ’l meglio ed al peggior m’appiglio.
     
La riflessione qui entra come elemento negativo, non a raffreddare il sentimento con la sua preponderanza, ma a concitarlo col suo contrasto. Perché è un inutile riflettere, buono solamente a dare al poeta coscienza della sua miseria. Ci è qui il presentimento di quella tragedia dell’anima, di quella scissura tra il pensiero e l’azione, che i moderni hanno portato fino all’umore: una specie di malattia sublime, sconosciuta a’ tempi primitivi. Dico presentimento, perché per la sua natura superficiale e mobile il Petrarca non riman fisso in questo indirizzo: lo percorre e non lo penetra, se ne sente scottato, e non lo guarda, non l’interroga.

Nondimeno, questa canzone si può considerare come una nuova e grande apparizione nella storia della poesia, sí per la natura del concetto e si per la finitezza della forma. Le [p. 115 modifica]immagini sono pregne di senso e d’affetto, le sentenze felicissime; l’organismo interno, sotto un’apparente sprezzatura, perfetto; l’arte del verso condotta a una grande perfezione, sicché parecchi versi sono rimasi proverbiali; una nobiltá semplice di dizione rispondente all’elevatezza de’ pensieri, e congiunta con non so che cupo e tristo che penetra per entro le midolla di questa riflessione impotente.

Ma se la riflessione, come elemento negativo, è altamente tragica e poetica, come positiva, è difettosa, quando si sostituisce alla vita, decomponendola ed esprimendone astrattamente i diversi elementi, ragionando per esempio sulla natura e i caratteri dell’amore, in luogo di mostrarlo in atto. Ci capita non di rado il Petrarca, e spesso, anche dove esprime sentimenti, ha l’aria di chi ti faccia un ragionamento. Pur da una parte ha cansato affatto quella forma barbara e scolastica che tanto spiace in Dante; e dall’altra, trovi alcune volte accanto alla riflessione un certo calore di vita, che nasce dal sentimento e dalla rappresentazione del proprio stato, come nel sonetto:

                                    S’amor non è, che dunque è quel ch’i’ sento?
Ma s’egli è amor, per Dio, che cosa e quale?
     Se buona, ond’è l’effetto aspro mortale?
Se ria, ond’è sí dolce ogni tormento?
S’a mia voglia ardo, ond’è ’l piarito e ’l lamento?
     S’a mal mio grado, il lamentar che vale?
O viva morte, o dilettoso male.
Come puoi tanto in me s’io noi consento?
     E s’io ’l consento, a gran torto mi doglio.
Fra si contrari venti, in frale barca
Mi trovo in alto mar, senza governo,
     Sí lieve di saver, d’error sí carca,
Ch’i’ medesmo non so quel ch’io mi voglio,
E tremo a mezza state, ardendo il verno.
     

[p. 116 modifica]E t’incontri proprio nella grande poesia, quando la riflessione produce un concetto generale che aliti per entro la composizione senza poterlo cogliere in alcuna parte, e sia quasi fiaccola che illumini a grandi distanze: vedete la sua luce, e non vedete lei. La poesia in questo caso non è un tessuto di riflessioni, ma è la rappresentazione d’un fenomeno, d’un certo stato dell’anima, di cui però il poeta sa la ragione e ve la lascia intravedere. Prendiamo la canzone:

                                         Se ’l pensier che mi strugge.2      
[p. 117 modifica]Il concetto è: perché non posso dire tutto quello che sento? Questa disuguaglianza tra il di dentro e il di fuori, tra le idee e l’espressione, ha colpito spesso grinnamorati di stupore e di [p. 118 modifica]dolore. Ma questo non è un fenomeno misterioso per il Petrarca, il quale ne ha giá a mano la spiegazione.
                                              Però ch’Amor mi sforza
E di saver mi spoglia,
Parlo in rim’aspre e di dolcezza ignude.
     

E l’amore che mi turba, e mi toglie il potere ed il sapere. Ora la poesia non è giá lo sviluppo di questo concetto, ma la rappresentazione dello stato dell’amante. Il concetto non è un vero che il poeta cerca e trova, ma un cercato e un trovato, un presupposto. Il che fa che la poesia conserva la sua libertá dirimpetto al pensiero, conserva un contenuto ed uno scopo proprio: pure, quel sapere il perché non è senza influsso sulla trattazione. Ci è un contenuto poetico, ma non c’è la maraviglia, l’ingenuitá, il patetico, il subito ed il vivo d’uno stato misterioso: c’è un andamento scientifico nella forma, e nel sentimento la calma della riflessione. Con la felice transizione della stanza quarta il poeta s’apre la via alla rappresentazione d’un altro fenomeno. Passeggiando per una verde riva, cerca e non trova i vestigi di Laura, stata altre volte colá. Di che prima s’affligge; ma, pensandoci su, non solo se ne consola, ma ne gode; anzi sarebbe afflitto del contrario, di sapere cioè con precisione che sia passata per questo o quel luogo:

                                         E piú certezza averne, fora il peggio.      
II qual verso è stimato oscurissimo dall’Alfieri, perché non ha colto il concetto di questa seconda parte della canzone. Il concetto è: quanto ho meno di realtá e piú ho d’immaginazione, meno conosco e piú immagino. Appunto perché non so dove Laura è passata, me la posso immaginare in ogni luogo:
                                              Ovunque gli occhi volgo,
Trovo un dolce sereno,
Pensando: qui percosse il vago lume.
Qualunque erba o fior colgo.
     
[p. 119 modifica]
                                         Credo che nel terreno
Aggia radice, ov’ella ebbe in costume
Gir fra le piagge e ’l fiume,
E talor farsi un seggio
Fresco, fiorito e verde.
Cosi nulla sen perde:
E piú certezza averne, fora il peggio.
     
Questo concetto è bellissimo; ed ognun sa quanta ricchezza di poesia ne ha cavato il Leopardi. Qui è un sottinteso, intento il poeta a rappresentare il suo godere, sapendo perché gode, senza dirlo o dimostrarlo o cercarlo.

Possiamo dunque esser severi senza essere ingiusti verso il Petrarca. Ha usato ed abusato della riflessione. Il suo spirito acuto lo tira troppo spesso dietro alle ragioni ed a’ ragionamenti; lo fa uscire in concetti anche in mezzo all’agitazione de’ sentimenti; lo sospinge per vaghezza di sentenze a chiuder troppe cose in troppo poco spazio, venute fuori per sottilizzare di mente anzi che per pienezza ed abbondanza di sentimento. Ma, d’altra parte, la riflessione non comparisce se non dopo d’esser passata per la sua immaginazione, non solo spoglia d’ogni ariditá scolastica, ma pomposamente abbigliata. E quando il poeta è veramente commosso, quando non fa che rappresentare il suo sentimento, e la riflessione ci si vuole intromettere, accompagnandosi con quello, amica o nemica: abbiamo innanzi non piú un fatto individuale, proprio del Petrarca, ma capitale nella storia dell’arte; vediamo giá sorgere quell’invitto dualismo, che, sotto tante forme, è la grandezza e la miseria dell’arte moderna.

  1.                                          I’ vo pensando, e nel pensier m’assale
    Una pietá si forte di me stesso.
    Che mi conduce spesso.
    Ad altro lagrimar ch’i’ non soleva:
    Che vedendo ogni giorno il fin piò presso.
    Mille fiate ho chieste a Dio quell’ale
    Con le quai del mortale
    Career nostr’intelletto al ciel si leva;
    Ma infin a qui niente mi rileva
    Prego o sospiro o lagrimar ch’io faccia:
    E cosí per ragion convien che sia;
    Che chi possendo star, cadde tra via,
    Degno è che mal suo grado a terra -giaccia.
    Quelle pietose braccia,
    In ch’io mi fido, veggio aperte ancora;
    Ma temenza m’accora
    Per gli altrui esempi; e del mio stato tremo;
    Ch’altri mi sprona, e son forse all’estremo.
         L’un pensier parla con la mente, e dice:
    Che pur agogni? onde soccorso attendi?
    Misera, non intendi
         
                                        Con quanto tuo disnore il tempo passa?
    Prendi partito accortamente, prendi;
    E del cor tuo divelli ogni radice
    Del piacer che felice
    No] può mai fare, e respirar no] lassa.
    Se, giá è gran tempo, fastidita e lassa
    Se’ di quel falso dolce fuggitivo
    Che ’l mondo traditor può dare altrui,
    A che ripon piú ia speranza in lui.
    Che d’ogni pace e di fermezza è privo?
    Mentre che ’l corpo è vivo,
    Hai tu ’l fren in balia de’ pensier tuoi.
    Deh stringilo or che puoi;
    Chè dubbioso è il tardar, come tu sai;
    E ’l cominciar non fia per tempo ornai.
         Giá sai tu ben quanta dolcezza porse
    Agli occhi tuoi la vista di colei
    La qual anco vorrei
    Ch’a nascer fosse per piú nostra pace.
    Ben ti ricordi (e ricordar ten dèi)
    Dell’immagine sua, quand’ella corse
    Al cor, lá dove forse
    Non potea fiamma intrar per altrui face.
    Ella l’accese: e se l’ardor fallace
    Durò molt’anni in aspettando un giorno,
    Che per nostra salute unqua non vene,
    Or ti solleva a piú beata spene.
    Mirando ’l ciel, che ti si volve intorno
    Immortai ed adorno:
    Che dove, del mal suo quaggiú si lieta.
    Vostra vaghezza acqueta
    Un mover d’occhio, un ragionar, un canto;
    Quanto fia quel piacer, se questo è tanto?
         Dall’altra parte un pensier dolce ed agro.
    Con faticosa e dilettevol salma
    Sedendosi entro l’alma.
    Preme ’l cor di desio, di speme il pasce;
    Che sol per fama gloriosa ed alma
    Non sente quand’io agghiaccio o quand’io flagro;
    S’i’ son pallido o magro;
    E s’io l’occido, piú forte rinasce.
    Questo d’allor ch’i’ m’addormiva in fasce,
    Venuto è di di in di crescendo meco;
         
                                        E temo ch’un sepolcro ambeduo chiuda.
    Poi che fia l’alma delle membra ignuda,
    Non può questo desio piú venir seco.
    Ma se ’1 Latino e ’l Greco
    Parlan di me dopo la morte, è un vento:
    Cnd’io, perché pavento
    Adunar sempre quel ch’un’ora sgombre,
    Vorre’ il vero abbracciar, lassando l’ombre.
         Ma quell’altro voler, di ch’i’ son pieno.
    Quanti press’a lui nascon par ch’aduggc;
    E parte il tempo fugge
    Che scrivendo d’altrui, di me non calme;
    E ‘l lume de’ begli occhi, che mi strugge
    Soavemente al suo caldo sereno,
    Mi ritien con un freno
    Contra cui nullo ingegno o forza valme.
    Che giova dunque perché tutta spalme
    La mia barchetta, poi che ’n fra gli scogli
    E ritenuta ancor da ta’ duo nodi?
    Tu che dagli altri, che ’n diversi modi
    Legano T mondo, in tutto mi disciogli,
    Signor mio, che non togli
    Ornai dal volto mio questa vergogna?
    Ch’a guisa d’uom che sogna,
    Aver la morte innanzi gli occhi parme;
    E vorrei far difesa, e non ho l’arme.
         Quel ch’i’ fo, veggio; e non m’inganna il vero
    Mal conosciuto, anzi mi sforza Amore,
    Che la strada d’onore
    Mai non lassa seguir, chi troppo il crede;
    E sento ad or ad or venirmi al core
    Un leggiadro disdegno, aspro e severo,
    Ch’ogni occulto penserò
    Tira in mezzo la fronte, ov’altri ’l vede:
    Che mortai cosa amar con tanta fede.
    Quanta a Dio sol per debito conviensi.
    Piú si disdice a chi piú pregio brama.
    E questo ad alta voce anco richiama
    La ragione sviata dietro ai sensi:
    Ma perché l’oda, e pensi
    Tornare, il mal costume oltre la spigne,
    Ed agli occhi dipigne
    Quella che sol per farmi morir nacque,
    Perch’a me troppo ed a sé stessa piacque.
         
                                             Né so che spazio mi si desse il Cielo,
    E veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio.
    E veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio.
    Quando novellamente io venni in terra
    A soffrir l'aspra guerra
    Che 'ncontra a me medesmo seppi ordire;
    Né posso 'l giorno che la vita serra
    Antiveder per lo corporeo velo:
    Ma variarsi il pelo
    Veggio, e dentro cangiarsi ogni desire.
    Or ch'i' mi credo al tempo del partire
    Esser vicino o non molto da lunge,
    Come chi 'l perder face accorto e saggio,
    Vo ripensando ov'io lassai 'l viaggio
    Dalla man destra, ch'a buon porto aggiunge;
    E dall'un lato punge
    Vergogna e duol, che 'ndietro mi rivolve;
    Dall'altro non m'assolve
    Un piacer per usanza in me si forte,
    Ch'a patteggiar n’ardisce con la morte.
         Canzon, qui sono; ed ho 'l cor via pit freddo
    Della paura, che gelata neve,
    Sentendomi per
    ir senz'alcun dubbio;
    Che pur deliberando, ho volto al subbio
    Gran parte omai della mia tela breve:
    Né mai peso fu greve
    Quanto quel ch'i’ sostegno in tale stato;
    Che con la morte a lato
    Cerco del viver mio novo consiglio,
    E veggio 'l meglio ed al peggior m'appiglio.
         
  2.                                          Se ’l pensier che mi strugge,
    Com’è pungente e saldo.
    Cosi vestisse d’un color conforme.
    Forse tal m’arde e fugge,
    Ch’avria parte del caldo,
    E desteriasi Amor lá dov’or dorme:
    Men solitarie Torme
    Foran de’ miei piè lassi
    Per campagne e per colli;
    Men gli occhi ad ogni or molli;
    Ardendo lei che come un ghiaccio stassi,
    E non lassa in me dramma
    Che non sia foco e fiamma.
         Però ch’Amor mi sforza
    E di saver mi spoglia.
    Parlo in rim’aspre e di dolcezza ignude:
    Ma non sempre alla scorza
    Ramo, né ’n fior, né ’n foglia,
    Mostra di fuor sua naturai virtude.
    Miri ciò che ’l cor chiude,
    Amor e que’ begli occhi
    Ove si siede all’ombra.
    Se ’l dolor che si sgombra,
    Avven che ’n pianto o ’n lamentar trabocchi,
    L’un a me noce, e l’altro
    Altrui, ch’io non lo scaltro.
         Dolci rime leggiadre
    Che nel primiero assalto
    D’Amor usai, quand’io non ebbi altr’arme;
    Chi verrá mai che squadre
    Questo mio cor di smalto,
    Ch’almen, com’io solea, possa sfogatine?
    Ch’aver dentr’a lui parme
    Un che Madonna sempre
    Dipinge, e di lei parla:
    A voler poi ritrarla.
    Per me non basto; e par ch’io me ne stempre:
    Lasso, cosí m’è scorso
    Lo mio dolce soccorso.
         
                                             Come fanciul ch’appena
    Volge la lingua e snoda;
    Che dir non sa, ma ’l piú tacer gli è noia;
    Cosi ’l desir mi mena
    A dire; e vo’ che m’oda
    La mia dolce nemica anzi ch’io moia.
    Se forse ogni sua gioia
    Nel suo bel viso è solo,
    E di tutt’altro è schiva;
    Odil tu, verde riva.
    E presta a’ miei sospir si largo volo,
    Che sempre si ridica
    Come tu m’eri amica.
         Ben sai che si bel piede
    Non toccò terra unquanco.
    Come quel, di che giá segnata fosti:

    Onde ’l cor lasso riede
    Col tormentoso fianco
    A partir teco i lor pensier nascosti.
    Cosi avestu riposti
    De’ bei vestigi sparsi
    Ancor tra i fiori e l’erba;
    Che la mia vita acerba
    Lagrimando trovasse ove acquetarsi.
    Ma come può s’appaga
    L’alma dubbiosa e vaga.
         Ovunque gli occhi volgo,
    Trovo un dolce sereno.
    Pensando: qui percosse il vago lume.
    Qualunque erba o fior colgo.
    Credo che nel terreno
    Aggia radice, ov’ella ebbe in costume
    Gir fra le piagge e ’l fiume,
    E talor farsi un seggio
    Fresco, fiorito e verde.
    Cosi nulla sen perde:
    E piú certezza averne, fora il peggio.
    Spirto beato, quale
    Se’ quando altrui fai tale?
         O poverella mia, come se’ rozza!
    Credo che tei conoscili:
    Rimanti in questi boschi.||