Saggi poetici (Kulmann)/Parte prima/Il garofano

Parte prima - Il garofano

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IL GAROFANO


Pria di porsi in cammino
     Disse Aminto alla sposa:
     «Alcimna, nosco venga
     Anche il minor figliuolo,
     5Onde conoscan gli avi
     Il terzo lor nepote.»
Parton, e giunti appena
     Alla capanna antica,
     Gli avi con gioja accolgono
     10Il vago nepotino
     Finor non visto unquanco.
Da prima sospettoso
     I vecchierelli ei guarda.
     Ma a balbettar comincia
     15E poco a poco ride,
     Il capo volge e asconde,
     E alfin le mani stese
     lnver l’antica madre,
     Mostra che in quelle braccia
     20Di riposar desía.
Per divertire il caro
     Vago fanciullo, imita
     L’avo ricurvo il canto
     Degli animai che vede
     25Errar d’intorno il figlio.
La vecchierella istessa
     Ringiovanita balla;
     Il fanciullin, che dianzi
     Con istupor mirolla,
     30Or dalle risa muore,
     Ed egli pur muovendo
     Le mani e i piè, si crede
     Nella danza già esperto.
Poi l’avo agli altri duo
     35Maggior fratelli volto:
     «Dimmi, caro Menalca,
     E tu, Climena, dimmi,
     Il fratel vostro amate?»
     Ognun risponde, l’amo.
     40«Ah! se a te dato fosse,»
     Così dicea Menalca,
     «Veder come sorpreso
     Gli occhi spalanca e ammira
     Il mio cerchio ruotante;
     45O miei navigli a grado
     Dell’aura galleggiare
     Sullo stagno che assembra,
     S’io pur non erro, a un lago.
     Le mie barchette vanno
     50Carche di vaghi fiori:
     Spesso su lor si posano
     Vaghissime farfalle
     A cui l’ali qual oro
     Variopinte sfavillano.
     55Ma la sua gioja è piena,
     Quand’abbandono ai venti
     L’aquilon mio: è bello:
     Ha verdi le grand’ali,
     Rubiconda la testa,
     60Il ventre giallo, e tutto
     Di negre punte sparso
     Dietro si aggira e stende
     Immensa e lunga coda,
     Quasi serpe.... ma attonito
     65Mi guardi? ah! forse ignori,
     Un aquilon che sia?»

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Climena tutta lieta
     Interrompe dicendo:
     «Ed io ben spesso seco
     70A diporto pe’ campi
     I fiori a lui più grati
     Colgo, e ne fo ghirlande,
     E gliene adorno il capo
     E le spalle e le braccia,
     75Ed ei fiutar volendo
     De’ fiori il grato olezzo,
     Per inganno li appressa
     Alla bocca non anco
     Di denti rivestita,
     80Che tiene aperta aperta
     Quale augellin da nido.
Menalca
Avo, ti disser mai,
     Come ei da noi giungesse?
L’Avo
Io no, nol so: tu dillo.
Menalca
85Recoccelo la grue.
     Io mel rammento, e tosto
     Tel narrerò, m’ascolta.
Ne diede un giorno il padre
     Due scodelle ripiene
     90Di fior di latte, e frutta,
     Tre picciol pani, e poscia
     In fondo ne condusse
     Del giardino, là dove
     Ha principio lo stagno,
     95Intorno al qual ben odi
     Il gracidar d’innumere
     Timide rane. Allora,
     «Qui statevi, miei cari,
     A trastullarvi,» ei disse,
     100«Fin ch’io ritorni a voi.
     Ma pur di tempo in tempo
     Verso i monti guardate,
     Ch’oggi verrà la grue
     Dal lunghissimo collo,
     105E recheravvi in dono
     In roseo cestellino
     Un picciolo germano.»
     Noi svogliati giocammo,
     E quasi sempre fiso
     110Lo sguardo inverso i monti
     Noi tenevam spiando
     Il venir della grue,
     Il fratello e la cesta.
     Già tramontava il sole
     115E noi delusi sempre
     Attendevamo ancora,
     Quando il padre ne venne
     Inverso noi. «Correte,»
     Egli gridò, «correte,
     120Il fratellino è giunto.»
     Noi frettolosi accorsi
     Rosea cesta vediamo
     Con il fanciul che avea
     Per anco chiusi gli occhi,
     125Ma la grue più non v’era.
Così narrò Menalca.
     Alla madre Climena
     Si volse, e timidetta
     Sotto voce le disse:
     130«Diletta madre, forse
     Me pur la grue in roseo
     Cestellino recotti?»
     Allor la madre a lei:
     «Noi te trovammo, o cara,
     135Tra que’ tuoi gelsomini,
     Che stan del pioppo all’ombra,
     Allo spuntar dell’alba,
     Quand’è il sole in Leone.»
Ma a un tratto udissi voce
     140Che gridò: «Fanciullini,
     Già la mensa v’attende.»

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Tutti corrono a gara
     Alla capanna: ella era
     Da tre lati coperta
     145Con tortuose viti,
     Che piegavano al peso
     De’ grappoli maturi,
     E l’altro al dorso appoggiasi
     De’ monti. In la capanna
     150Ognuno rientrato
     Stassi alla mensa intorno.
     Invocati gli Dei
     E Diana protettrice,
     Assidonsi fra gli avi
     155I due maggior fanciulli,
     E il pargoletto stassi
     Dell’ava in grembo: il desco
     Era di quercia: sopra
     Antico vaso stava
     160Di biondo miel ripieno.
     Havvi burro che sembra
     Candida intatta neve,
     Fresco formaggio, e dentro
     Cestellini coperti
     165Di pampini si scorge
     La pera e la ciriegia,
     Il trasparente pomo,
     Uve d ’ogni colore,
     E in fin que’ frutti mostransi
     170Dall’aurea scorza, dono
     Delle canore Dive
     Che abitano del mondo
     L’occidental confine.

Innanzi a ognun tu vedi
     175Il sacro pane e il sale,
     Colmo un vaso di latte
     E in piccolo bicchiere
     Vin generoso e vecchio.
     Tutti que’ vasi furo
     180Testimoni alle mense
     Degli Antenati, molti
     Rammentano l’etade,
     Etade ora obliata,
     In che di lusso ignaro,
     185Benchè men ricco, l’uomo
     Era vieppiù felice.

Poscia che il lieve cibo
     Li ristorò: con voce
     Alta, ciascun sue grazie
     190Al cielo rese. Tutti
     Mossero inverso al vago
     Spazïoso giardino,
     Ch’or erto or piano, è ombroso
     Là dove a Diana sacra
     195Stassi spaziosa grotta.

Stanca la Diva un giorno
     Dall’errar lungo, entrando
     Nella vicina selva
     In quell’antro fermossi:
     200Onde nomato venne
     Il riposo di Diana.

Ove il giardin finisce,
     Ergesi un colle aprico
     Che la catena chiude
     205Dei capricciosi monti,
     Le cui spalle coperte
     In pria da selve e boschi,
     A poco a poco snudansi,
     Infin che resta solo
     210A ricoprirle il musco,
     Povero velo ai sassi,
     Che colla minacciante
     Titanea fronte chiudono
     Alle nubi la via.

215Dal cavo sen di quelle
     Roccie altissime scende
     Qua e là con gran fragore,
     Benchè non visto, un rio
     Insino al vago colle,
     220Cui fan lieta corona

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     Bei fioriti cespugli.
     Ivi poi, in un sol letto
     Chiuse, con uniforme
     E grato mormorio
     225Cadono spumeggianti
     Copiosissime l’onde
     Nella vallea ch’è sotto:
     Sembran argenteo velo,
     Mosso dall’incostante
     230Soffiar d’un venticello,
     E il sol quasi sommerso
     Sovra esso i raggi stende,
     Che ripercossi frangonsi
     In iride vezzosa.
     235Cadon l’onde: e al di sotto
     Natura istessa aprio
     Fresca spaziosa grotta,
     Cui doppia angusta via
     Mena: coperto è il suolo
     240D’arena, a cui fan siepe
     Fior misti azzurri e bianchi.
Poscia che tutti assisi
     Furon presso alla grotta
      ln fresca e molle erbetta,
     245Così l’ava parlò:
     «Ora, fanciulli amati,
     Perchè qui venni udrete
     E ciò che dirvi io voglia.
     «Un dì, stanca e spossata
     250Dalle vicine selve
     Qui Diana venne in questa
     Grotta a posarsi: stava
     Là, dove al muro appesa
     La sua lancia vedete
     255Insieme a quella ciotola.
     Parmi vederla ancora,
     Di beltà risplendente
     E gli occhi azzurri pieni
     D’ineffabil dolcezza:
     260Tra le chiome brillava
     Il dïadema, quale
     Luna nascente in cielo.
     «Alcimna era maggiore
     Di te, Climena, un anno,
     265E nel giardin beata
     Intero il dì sen stava,
     Ogni fior coltivando
     E spesso l’innaffiava
     Con la ciotola piena
     270Dell’onda attinta al margo
     Del serpeggiante rio.
     Sempre Alcimna cortese
     Inverso ognuno, incontro
     Senza indugio correva
     275Allo straniero ignoto,
     Che fuor del buon sentiero
     Smarrito errava, e ansiosa
     Di giovarlo chiedea.
      Così la madre vostra
     280Cara a tutti divenne.
     — In un de’ dì più fervidi
     Della cocente estate,
     Affaticata Alcimna
     Di questa grotta venne
     285A riposarsi all’ombra.
     Io non dirovvi quanta
     Sorpresa in lei destasse
     Il trovarvi seduta
     La Cacciatrice Dea.
     290Ella ignorava appieno
     Chi fosse Diana: pronta
     E benigna a ognun, crede
     Ch’arda di sete, e incontro
     Le si fa colla tazza
     295Piena di limpid’acqua
     E l’offerisce umile
     All’attonita Dea.
     La Diva con favore
     Accettava l’offerta,
     300E Alcimna ratta ratta
     A noi ne viene, e grida:
     «Presti accorrete: donna
     Vezzosa è nella grotta
     Che affaticata sembra

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     305Da lungo viaggio: tiene
     Verga simile a quella
     Dei pastor nella destra,
     Ma con dorata punta.»
     Quest’ultime parole
     310Tremar ne fero: ed ella
     Che se ne avvide disse:
     «Non paventate, io mai
     Vidi donna più bella
     Nè più cortese: tosto
     315Ch’inverso lei venirne
     Frettolosa me vide
     Colla tazza ricolma,
     Mosse ver me benigna,
     L’accetta, e mi richiede
     320Il nome mio: rispondo
     Senza timore, Alcimna:
     E invan vorrei narrarvi,
     Quant’è grata sua voce,
     Ma presto andiam...» Credemmo
     325Che la straniera fosse
     Una seguace ninfa
     Dell’alma Dea de’ boschi,
     Che, smarrita la via,
     Riposasse nell’antro.
     330Ma qual stupor fu il nostro
     Il vederci dinanzi
     La stessa Diana: allora
     A terra ci prostrammo.
     Ella benigna a noi
     335Disse: «V’alzate.» Alcimna
     Poscia mirando, chiese:
     «E quest’è figlia vostra?»
     A noi fallía la voce,
     E rispondemmo appena
     340Con il capo accennando.
     Ella allor ne rispose:
     «Di vostra figlia in premio
     Io voi proteggerò;
     Ogni vostro desio,
     345Purchè prudente, io tosto
     Adempirò.» Ciò detto,
     Alcimna rimirando
     Con placido sorriso,
     Partì, e la lancia aurata
     350Nella grotta lasciò.»
Così la veneranda
     Ava narrò: i fanciulli
     Timidamente gli occhi
     Ver la lancia drizzaro;
     355Quand’improvviso il canto
     Del cuculo s’udio
     Nella vicina selva.
Ad un tratto la gioja
     Negli occhi de fanciulli
     360Al rispetto subentra.
     Ma la lor madre Alcimna
     Subito singhiozzando
     Dirottamente piange.
     Ansiosi i duo vecchi
     365Disser: «Che è mai, figliuola?»
Aminto lor rispose:
     «Io narrerovvi tutta
     La cagion di quel pianto.
     Un dì verso il tramonto
     370Passeggiavam coi figli
     All’ombra della selva
     Al nostro tetto attigua.
     E nel folto del bosco
     Udissi tosto il canto
     375Del cuculo: con gioia
     Spesso s’ode la voce
     Del profetico augello.
     Molte diverse a lui
     Facciamo inchieste, e lieti
     380Sue risposte udivamo
     Propizj a desir nostri.
     Alcimna sempre paga,
     Gli richiese: «Quant’anni
     Avranno ancor di vita
     385I genitori miei?»
     L’augel, quando rispose,
     Flebil sol mise un grido.
     «Non m’intendesti,» Alcimna

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     Gli replicò, «io ti chiesi,
     390Se ancor lunghi anni in vita
     I miei vedrò:» e nuovo,
     Il fatidico augello
     Flebile mise un grido...
     Ma chi prestar mai fede
     395Potrebbe al canto vano
     D’augel, che il volgo crede
     Dell’avvenir presago?
     Pur da quel giorno Alcimna
     Fessi penosa e mesta:
     400E tal cagion m’indusse
     A qui recarla, quando
     Fur mietute le biade.
     E qui sol vidi lieta
     Dopo lunga mestizia
     405La sposa mia.»
                                   Rivolto
     Il padre a lei: «Se pure
     Dell’augure fatale
     Fosse il risponder vero,
     Perchè tanto lagnarti?
     410È dono degli Dei
     La stessa morte: Diana,
     Dopo noi, vi rimane:
     A voi sarà possente
     Proteggitrice. Spesso
     415Abbandoni tu pure
     La tua capanna, i cari
     Genitori cercando.
     E tal tua madre ed io,
     La capanna deserta,
     420N’andremo ai Numi. Vedi,
     Vedi quell’aureo sole
     Nel tramonto più grande
     Dietro a que’ monti azzurri?
     Così n’andrem noi pure
     425Al cenno della morte,
     Quand’il vorran gli Dei.
     E certo io son che alfine
     Riveder mi sia dato
     Al di là della tomba
     430Tutti i diletti miei.
Mentre così Menalca
     Alla figlia parlava,
     Taciti ritornaro
     All’ospital capanna,
     435Ove già pronto il desco
     I commensali aspetta.
Fornito il pasto, stettero
     Fra placidi discorsi
     Aspettando che in cielo
     440Cintia piena sorgesse.
     Umilmente prostrarsi
     Innanzi alla possente
     Proteggitrice Dea,
     E le stancate membra
     445Al sonno abbandonaro.
Alla paterna stanza
     Stettero ancor tre giorni
     I lieti figli: in cielo
     Sorgea la quarta aurora
     450Di rosea luce cinta,
     Ed Alcimna ed Aminto
     Entrar nell’antro sacro
     A ringraziar la Dea
     De’ suoi favori e averla
     455Pel futuro propizia.
Al lor ritorno è il sole
     Già mezzo fuor dell’onde
     Che lieve un vento increspa,
     Sì che il diresti fuso
     460Tersissimo diamante;
     I suoi raggi furtivi
     S’apron la via tra ’l folto
     Del querceto che adombra
     La paterna capanna.
     465Già di lontano s’ode
     De’ genitor la voce
     Mista de’ fanciullini
     Al franco riso. L’ava
     In mezzo a lor parea
     470Ringiovanire. Pronti
     Tutti attende la mensa

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     Di varie frutta carca.
     Pronti pur sono i cibi
     Che sian ristoro al lungo
     475Cammin de’ viandanti.
Alcimna non ritenne
     Le lagrime, abbracciando
     I cari genitori,
     Ch’invocano per lei,
     480Per lo sposo, pe’ figli
     L’ajuto degli Dei.
Il fanciullin Menalca
     S’appressa all’avo e lieto
     Con carezze gli dice:
     485«Vienne a veder: insieme
     L’aquilon mio daremo
     Libero ai venti: al corso
     Io mi darò, la fune
     Tenerla tu: vedrai,
     490Se v’è fanciul che possa
     Contender meco.» Il vecchio
     Accarezzollo e disse:
     «Verrò.» Lo stesso invito
     Fece Climena all’ava,
     495Ed ella pur rispose:
     «Insiem verremo.» Lacrime
     Dirotte accompagnaro
     Il partir loro: occulto
     Fatal presentimento
     500Lor dice, ch’è l’estremo
     De’ loro addii. I vecchi
     Seguir cogli occhi i figli,
     Che volgevansi spesso
     A rimirarli: un colle
     505Poscia fra lor s’innalza
     (E durissimo fato
     De’ miseri mortali)
     Separolli per sempre.
     Riedon pensosi e taciti
     510I vecchierelli, assisersi
     Nell’ingresso dell’antro.
     E alfin Menalca il primo
     Ruppe il silenzio: «Ormai
     Alcimna da molt’anni
     515È madre e sposa, e nullo
     È cambiamento in lei.
     Io sempre veggio ancora
     La tenerezza istessa,
     Lo stesso amor per noi,
     520Quell’amor, che fanciulla
     Ce la rendea sì cara.
     Lei sola prole a noi
     Concessero gli Dei,
     E di noi chi esser puote
     525De’ suoi figli più lieto?
     E il mio Menalca, oh! quanto
     È gajo e ossequïoso.
Climena
E qual candor, qual grazia,
     Quanta dolce modestia
     530Nella Climena mia!
menalca
Grazie, o Imeneo, ti rendo
     Pe’ figli miei, fra loro
     La concordia vegg’io:
     Ogni desio d’Alcimna
     535Previen rapido Aminto.
Climena
Ogni ombra di dolore
     Che vegga in lei, lo rende
     Sollecito, tremante.
menalca
Che mai ne resta a chiedere
     540Al ciel benigno in dono?
Climena
Indivisa la morte.

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Menalca
O Diana, di mia stirpe
     Tu costante sostegno,
     Propizia ne concedi
     545Quest’ultimo desio!
Ed ecco i debil piedi
     Dell’attempata coppia
     Li configgon nel suolo,
     I corpi loro vanno
     550Poco a poco scemando
     E si copron d’unita
     Articolata scorza.
     Ambo s’avvedon tosto
     Che stanno per cangiarsi
     555In fior di specie ignota.

Esclamano ambidue:
     «A te sien grazie, o Diana,
     Che benevola adempi
     L’ultima brama nostra!»
     560Menalca sotto voce
     Poi dice: «addio, Climena!» –
     «Addio, Menalca mio!»
     La sposa gli rispose;
     Ed eccoli cangiati
     565Ne’ garofani grati
     A Diana Cacciatrice.