Rivista di Cavalleria - Volume VII/V/Due altre parole sull'equitazione di campagna
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Due altre parole sull’equitazione di campagna
Fra le molte, e talune anche insperate, attestazioni di consenso alle idee da me svolte nello studio comparso in questa Rivista, ricevute da superiori e colleghi (i quali tutti sentitamente ringrazio), era da prevedersi che non mi sarebbero mancate le crìtiche.
Di queste non mi dolgo, nè mi stupisco ed avrei voluto lasciare soltanto al tempo, che è galantuomo, la cura di confutarle. Ma poichè il capitano Varini, in un suo articolo pubblicato nel fascicolo di Aprile di questo stesso periodico, ha con bel garbo concretato le critiche in due principali appunti, mi sia permesso di chiedere ancora una volta l’ospitalità alla nostra Rivista per brevemente rispondere al mio valente e cortese contraddittore.
Premetto che il suo elaborato ragionamento sopra le andature laterali non riempie nessuna lacuna, nè implica alcun nuovo criterio nell’impartire l’istruzione. Tali andature, come del resto il piego e i diversi atteggiamenti di testa da dare al cavallo, non sono che i corollari di un metodo antiquato al quale mi sono sempre palesato contrario, anche prima che «Scuola vecchia e scuola nuova» vedesse la luce e potesse influire sui miei apprezzamenti. La mia ripugnanza per un tale genere di equitazione era nota abbastanza e non richiedeva che io la illustrassi, soffermandomi ad ogni particolare. Per legge di logica, ammesso errato il principio, sono necessariamente errate tutte le sue conseguenze.⁂
Ed eccomi al primo punto controverso. Afferma il mio egregio compagno e contraddittore che dopo quindici giorni di maneggio le reclute non sono in grado di seguitare l’istruzione all’aperto. Ed anche a me, sinceramente, sembra così. Se per seguitare l’istruzione all’aperto s’intende cavalcare in terreno vario alle diverse andature, superando ostacoli e dislivelli, anch’io riconosco che un simile lavoro è sproporzionato per un cavaliere inesperto. Se non che io non ho mai pensato, nè credo di essermi espresso in questo senso. Io ho scritto soltanto che dopo questo breve periodo di tempo, nel quale le reclute avranno riceuto le norme semplici e fondamentali sul modo di girare il cavallo, esse potranno essere condotte all’aperto; ma non per far subito della scuola di campagna, ma per acquistare anzitutto quell’equilibrio, quella stabilità e quella disinvoltura che l’ambiente rinchiuso del maneggio e gli angoli troppo frequenti non possono che ritardare. L’istruttore dovrebbe condurle da principio in un terreno piano, abituarle a cavalcare dietro una guida a volontà per le strade e per i sentieri in terreno piano ed unito, condurle a frotte ad andature moderate. Per ottenere questo non occorre una saldezza di cavaliere provetto. La saldezza che a loro manca verrà di per sè insieme ad una più rapida confidenza col cavallo quando, naturalmente, a questo scopo si usino cavalli arrendevoli, quali tutti gli squadroni possono fornire. Io, che ho potuto esperimentare questo sistema, non ho cagionato nessuna confusione e nessuna disgrazia e perciò sono immune da ogni rimorso.
Sono persuaso che il capitano Varini, il quale, come dice e come tutti sappiamo, ha fatto il corso magistrale e corso non pochi steeple-chases, non mi ha mosso questo appunto per essersi allontanato da quei principii che anni sono gli dettarono «la scuola vecchia e la scuola nuova». Ma quello che meno comprendo si è come tali principii e tale pubblicazione gli siano stati suggeriti quasi come reazione o protesta per quanto ora insegnato in quel corso ora abolito. Perchè, se molte istruzioni di maneggio d’allora erano inutili ed anche contrarie allo addestramento dell’ufficiale e del cavallo militare, l’equitazione di campagna svolta dal cavaliere Paderni era ispirata a criteri pratici e sani, e condotta con ardire e correttezza poco comuni. Se alcuni suoi allievi non sempre seppero o vollero attenersi a quei criteri, la colpa non è del maestro, il quale a me, che fui pure suo allievo, parve sempre uno straordinario istruttore di campagna.
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E vengo al secondo punto nel quale sono veramente sorpreso che egli non condivida il mio parere. Io sono convinto come di una verità indiscutibile che per girare un cavallo a destra bisogna tirare la redine destra e cedere ad un tempo la sinistra. Il Varini crede che un tale metodo sia deleterio per le spalle del cavallo ed emette così un giudizio a mio avviso non meno paradossale dell’altro notissimo che ogni salto ne diminuisce di cinque lire il valore. Come il cavallo non compie nessuno sforzo nel salto quando a questo sia condotto per gradi e con le norme volute, così egli non soffre nelle spalle nè altrove, girando col metodo indicato, purchè in quel metodo sia stato istruito sin da principio. E accetterei l’esperimento, sicuro di arricchirmi; poichè, fra quanti cavalli ho addestrato e visto addestrare, mai uno ebbe a soffrire alle spalle per tale motivo.
Intendiamoci, io ho detto: per girare a destra tirare la redine destra e cedere la sinistra. Ora cedere non significa abbandonare. Quando il cavallo, tirato dalla redine destra, porta la testa da quella parte, la redine sinistra deve mantenere la tensione di prima e siccome la distanza fra la bocca e il pugno sinistro va man mano crescendo, è questo pugno sinistro che per cedere deve spingersi avanti. Tra i due estremi poi, per chi non sapesse conoscere la giusta tensione, è indubitatamente preferibile una ceduta troppo forte ad una troppo piccola; perchè questa lascerebbe il cavallo nell’imbarazzo e, ripetuta, finirebbe per disturbarlo.
Nell’articolo, ultimamente comparso, del colonnello Cantoni, ho letto che tale metodo, quantunque non regolamentare, è caldamente appoggiato anche a Vienna dal comandante la scuola magistrale d’equitazione. E ciò, se non costituisce una legge indiscutibile, è certo di conforto alle mie idee.
In quanto al sistema propugnato dal Varini di appoggiare la redine opposta sul collo del cavallo, io lo reputo infinitamente pericoloso. È per esso che nel cavaliere si radicano difetti difficili ad estirpare; è per esso che molti cavalli diventano caparbi, ostinati e disubbidienti alla mano. Che il capitano Varini o un altro provetto cavaliere riesca in quel modo a girare il cavallo, io non dubito affatto. Però questo ad andature moderate, al passo o al trotto, giacchè a un’andatura veloce il cavallo non capisce questo semplice accenno; si sposterà lateralmente obliquando, ma nulla più. Immaginiamo poi un soldato, un cavaliere spesso mediocre, il quale non avendo i pugni ben fermi è incapace di sentire lui stesso e quindi di far sentire al cavallo quella tale diplomatica azione. Obbligato a farla, la farà, ma incomposta e violenta; appoggerà, è vero, la redine esterna sul collo, ma novanta volte su cento non tirerà la redine interna, non farà cioè il movimento essenziale che determina il cavallo a girare; e il povero animale, non sentendo un ordine continuo e sicuro, non saprà che risolvere e finirà per ribellarsi.
Avvezzo personalmente ad ottenere ottimi risultati col suo sistema di girare il cavallo, egli crede che anche le reclute possano ottenerne di uguali. E l’incertezza che egli riscontra dopo i primi quindici giorni di maneggio è da lui attribuita alla loro poca saldezza mentre è da ricercarsi piuttosto e direi unicamente nella preoccupazione e nella difficoltà di eseguire un movimento di mani che non sanno e non possono eseguire.
Riguardo all’azione del peso del corpo io sono pienamente d’accordo con lui; anche il regolamento attuale la sancisce. Confesso che mi era sfuggita come una cosa ovvia e istintiva. Come avviene per chi, avendo un carico sopra una spalla, obliqua da quella parte per portare il proprio centro di gravità verso centro di gravità dell’insieme, così è per il cavaliere il quale, girando, obbedisce alla stessa legge che governa l’equilibrio.
Ho creduto di confutare questi due punti, non perchè nelle idee da me espresse non esistano omissioni o lacune, ma perchè il primo mi par fondato sopra un’erronea interpretazione di quanto ho scritto e il secondo muove da un principio completamente opposto a quello che informa le mie idee.
Del resto tali appunti si riferiscono a semplici particolari e non mi pare che tocchino, com’egli scrive, il concetto sostanziale, il quale è «di sempre assecondare e favorire gl’istinti e le attitudini del cavallo, evitando di produrgli durante il lavoro inutili sofferenze». Concetto semplice e pratico che, mi auguro di veder presto sancito dal regolamento.
Con questo io credo di avere abusato abbastanza dell’ospitalità della Rivista e della cortesia dei lettori, e mentre all’una ed agli altri mando le mie scuse e i miei ringraziamenti, prometto di non ritornare più sopra un argomento che rischierebbe di diventare noioso.
Tenente Caprilli.