Dolce concento di celesti voci
Sparto aleggia sull’aura:
Dentro ogni cor piove felice oblío,
Che i passati martir quasi ristaura:
Taccion le grida atroci
Di guerra; e sangue più non scorre il rio:
L’uomo all’altr’uom più pio,
Per alcun tempo almen, tornato parmi;
Secure ondeggian l’ampie mèssi al vento;
E, ripreso ardimento,
Più non udendo il romorio dell’armi,
Torna il pastore ai carmi.
Ma di sudor grondanti
Per le lor fresche imprese, i Re pur veggio
Rasciugarsi le fronti alto-raggianti,
Lena pigliando sul beato seggio.
II.
Quel dal Leopardo, che aggravar volea
Agli Angli suoi più il giogo
E Albïon conquistar nel nuovo mondo,
Il Britanno poter condotto al rogo
Ha con tal voglia rea:
Quel dal Giglio parer vorria giocondo:
Così il Batavo biondo,
Cui da non guerra pur ridonda pace;
E in longanime orgoglio invan racchiuso,
Lo assediator deluso
Della gran Calpe più di lui tenace:
Ma questa lega giace
Vittorïosa in pianto.
Ben dell’armi sue prime andarne altera
Può l’America a dritto, essa che il vanto
Ritratto n’ha di libertade intera.
Ecco squarciarsi la caligin densa
Che tarde etadi involve,
E un vorace mostrarmi ardito fuoco
Che schianta arde consuma e strugge in polve
Una empia turba intensa
A far del servir nostro infame giuoco.
Ben forza è, ben, dar loco
A impetüoso turbine sonante,
Che da occidente con tal forza spira,
Che in suoi vortici aggira
Le più audaci superbe eccelse piante,
E se le caccia innante
Là fin dove il mal seme
Nell’Asia come in suo terreno alligna.
Sparito è il nembo che c’ingombra e preme:
Fede e virtù fra noi già si ralligna.
IV.
Ma, oimè! qual sorge sull’immenso piano
Dell’oceàn che parte
Dall’America noi, fero possente
Sovra negre ali immense all’aura sparte
Torvo Genio profano?
D’Europa ei muove; e baldanzosamente
La tempesta fremente
Che a noi salvezza e libertade apporta,
Arresta ei sol col ventilar dell’ale;
La cui possa fatale
Dall’onde al ciel da un polo all’altro insorta,
Fa d’adamante porta
Ad ogni aura felice
Che a noi mandasse occidental pïaggia.
Malnata forma, oh chi sei tu, cui lice
Far che ogni nostra speme a terra caggia?
V.
Tenebre i passi tuoi, l’alito è morte;
Occhi di bragia mille;
Bocche più assai, di fere zanne armate,
Da cui di sangue ognora grondan stille;
Tutto orecchie, ma pôrte
Soltanto alle parole scellerate
Da invidia fabbricate;
Adunchi, innumerabili, sanguigni,
Rapaci artigli, all’accarnar sì adatti,
A disbranar sì ratti:
Oh chi se’ tu, che a rio tremor costrigni
Anco i cor più ferrigni?
E soli eletti pochi,
Cui di sangue disseti e d’oro pasci,
Tremanti a tua feral mensa convochi,
E satollar del pianto altrui li lasci?
VI.
Tu se’ colui, ben ti ravviso, e indarno
Cogli occhi torti cenno
Minacciando mi fai che il nome io taccia:
Tu sei quel mostro rio, cui vita dienno
Pingue ignoranza e scarno
Timor, che il fuoco il più sublime agghiaccia
Con sua squallida faccia.
Dispotismo t’appelli; e sei custode
Tu solo omai di nostre infauste rive,
Dove in morte si vive;
Dove sol chi per te combatte, è prode:
Dove alla infamia è lode,
E i falsi onor sembianza
Veston di sacra alta virtude antica;
Dove sol presta la viltà baldanza;
Dov’è sol reo quell’uom che il vero dica.
VII.
Che canto io pace omai? Fia pace questa,
Mentre in armi rimane,
Nè sa perchè, l’una metà del gregge;
Tremante l’altra e dubbia anco del pane,
Stupida, immobil resta?
Fia libertà quella che or là protegge
Chi assoluto qui regge?
Fu guerra questa, ove il cercarsi ognora
L’osti fra lor nè il ritrovarsi mai,
Fu il più atroce de’ guai?
Ben féro: esser cagion perchè l’uom mora
Può un’erba vil, che odora
Infusa in bollent’onda;
Bevuta, i corpi al par che l’alme snerva?
Pur dall’ultima d’India infame sponda
Va l’America a far povera e serva.
VIII.
Maratona, Termopile, l’infausto
Giorno di Canne stesso,
Guerre eran quelle: e ria cagione il vile
Lucro servil non era; ove indefesso,
D’avarizia inesausto,
Tutti scorrendo i mar da Battro a Tile,
Veglia il moderno ovile.
Pace era quella, che d’Atene in grembo
Con libertade ogni bell’arte univa;
Dove a un tempo si udiva
Di varie e dotte opinïoni un nembo. —
Ma in questa età, che è lembo
D’ogni bell’opra estremo,
Qual fia tèma di canto? a chi secura
Volgo mia voce, mentr’io piango e tremo? —
«Ahi, null’altro che forza, al mondo dura!»