In che ti offesi, o placido
Sonno, fratel di morte;
Che le palpébre a premere
Non riedi al buon consorte? Gli occhi antichi suoi tremuli
Eran già il tuo soggiorno;
E appena appena or veggioti
Volare a lor d’intorno? Il figlio almo di Venere
Cangi il suo seggio ognora;
Ch’ei ratto ha il volo e fervido,
E tutto fa in brev’ora: Ma tu, che hai gravi ed umide
Di vapor stigio l’ali,
A ferma stanza eleggiti
Membra caduche e frali. Tu il Nume sei de’ languidi
Vecchi cadenti sposi;
Tu puoi solo deludere
I dubbi lor gelosi.
Qual hai più augusto tempio
Che i lor gelati petti?
Deh! torna; posa; ed occupa
Tutti i senili affetti. — Felice me! propizio
Par che mi ascolti il Nume.
Vacilla il capo debile;
Reggersi invan presume: Sul petto il mento labile
Ecco cade, e ricade:
In braccio al sonno giacesi
Già la canuta etade. Amor, vincemmo. Io cupido
Volgo a mia donna il guardo;
Aggiunger esca impavido
Già posso al fuoco ond’ardo. Già dai begli occhi fulgidi,
Negri, amorosi, ardenti,
Bere il velen piacevole
Io posso a sorsi lenti: E già sento, che tacito
Serpeggia entro ogni vena;
Nè il labro oso disciogliere,
Cotanto l’alma ho piena... Ma, oimè! che veggo? ei svegliasi?
Appena era sopito:
E a terra io deggio affiggere
L’occhio, che sol fu ardito? — Sonno, così deridere
Ti giova i preghi miei?
O Nume inesorabile,
Ultimo fra gli Dei, A te, maligno ed invido
Nemico degli amanti,
D’amor non meno incognite
Le gioje son, che i pianti. Qual Ninfa mai, qual Driade,
Pigro, di te si accese?
De’ tuoi verdi anni narraci,
Narraci l’alte imprese. Or, quei che tu conoscere
Furti d’amor non puoi,
Ardire hai di contendere
Oggi, tu stolto, a noi?
Ben io saprò men rigido
Nume invocar, più degno;
Cui cielo, e terra, e pelago
Teme, e di Pluto il regno. Amor, che d’Argo chiudere
I cento occhi potesti,
Duo soli, e assai men vigili,
Ne chiudi; e non fian desti.