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rime varie 31


Ben io saprò men rigido
Nume invocar, più degno;
Cui cielo, e terra, e pelago
Teme, e di Pluto il regno.
Amor, che d’Argo chiudere
I cento occhi potesti,
Duo soli, e assai men vigili,
Ne chiudi; e non fian desti.


LI.

STANZE.

Dimmi, Amore, colei che in roseo letto
Vezzosa altera giace, è donna, o Diva?
Agli atti, al volto, al prepotente aspetto,
Di Venere mi par la immagin viva;
Ma nel mirar quel dotto stuolo eletto,
Cui fa grazia di se, d’ogni altri schiva,
Per fermo (io dico in me) Minerva è quella;
Minerva a te, Cupido, ognor rubella.

Per man mi prende Amore, e non risponde:
E appressandosi lento all’alto toro,
Me spinge innanzi a forza, ed ei si asconde:
Io tremante mi arresto, e mi scoloro.
Tu tremi (il Dio mi dice) e n’hai ben d’onde;
Che sa piagar costei, non dar ristoro:
Ma, veggiam di qual ferro ell’abbia scudo
Contro il mio saettar possente e crudo.

Lei non visti miriamo. Ecco, che in mano
D’ampio volume ella si arreca il pondo:
Leggon gli occhi; lo spirto è già lontano;
Nè vuol veder del primo foglio il fondo;
Nè saper, se nel pieno, oppur nel vano,
Immobil stia, si aggiri, o libri il mondo;
Pria che il ciglio si chiuda, il libro serra:
Altri ne piglia, altri ne scaglia a terra.

Un le vien preso al fin, che i sensi tutti
A un tratto par che in lei richiami e desti;
Gli occhi, finor languidi immoti asciutti,
Soavemente a lagrimar son presti.