Rime del conte Vinciguerra II di Collalto/VII

Loda Venezia, patria della donna sua

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VI
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VII

Loda Venezia, patria della donna sua.

     Fortunata cittá, beato mare,
ove nacque sí bella e cara donna,
del viver mio colonna,
esempio di virtú, di cortesia,
negli atti, nel sembiante e ne la gonna
di costumi e di grazia singolare,
sola tra l’altre rare
gloria del cielo e de la vita mia:
non offenda voi mai fortuna ria,
né contraria stagion danno v’apporte;
cadi chi v’odia a la miseria in fondo;
natura, Iddio e il mondo
sempre v’acresca in piú gradita sorte,
tal che sian chiari in ogni etá futura
i sacri lidi e l’onorate mura.
     Da te, famoso mar, vento e procelle
vadino in bando, e nel tuo vaso ognora
ninfe faccian dimora,
quant’altre furon mai vaghe e lascive;
splenda oro fino de l’arena fuora,
e d’ogni parte in te versin le stelle
perle candide e belle,
e coralli di fiamme ardenti e vive;
giungano sempre a le felici rive
legni guidati di cortesi amanti,
e varchi lieta il tuo bel regno ignuda
la dea pietosa e cruda
co’ pargoletti Amor dietro e dinanti,
e tu, coperto d’amoroso nembo,
abbi sol latte e molle argento in grembo.
     A te, cittade, ogni mortal impero
con fedeltate e con ardir soggiaccia
dal mar, che sempre agghiaccia,
sin agli etiopi, e dal levar del sole
sin dove in seno l’oceán l’abbraccia;

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e quanti re son tra ’l Gange e l’Ibero,
dal Tane al Nilo fiero
consacrino al tuo nome opre e parole;
spirti di voglie alte, eccellenti e sole
reggin te in libertade ampia ed eterna;
né mai sia il cielo d’aricchirti stanco.
Viva il canuto e bianco,
fin che piace a colui che ci governa,
robusto e sano, e piú fiorita sempre
la gioventú senza cangiar mai tempre.
     Voi, mentr’io, lasso, in queste frondi ho stanza,
che fan verde ghirlanda a l’alto colle,
e la mia lingua estolle
l’alma beltade al ciel, da cui diviso
empio fato mi tien col petto molle,
godete la divina sua sembianza;
né mai per lontananza
restate privi del celeste viso,
ché l’angelo, a cui sète paradiso,
raggira in voi, né spiega altronde il volo.
Cosí in disparte lui mi veggo nulla,
ché ’l ciel sin a la culla
mi dié imperfetto qui senza lui solo;
ond’io, col pensier vòlto a’suoi bei rai,
voi e lui di lodar non compio mai:
     voi, perché riserrate il piú bel pegno
ch’abbi del suo valor unqua il ciel mostro,
lui, che da l’alto chiostro
scese tra noi per allumar la terra,
e a tempo inver del piú bel stato nostro
si fece del cor mio ricetto degno.
Onde a lodar i’ vegno
l’alta sua gran virtú, che mai non erra.
Cosí piangendo la continua guerra,
con che contende a’ miei desir fortuna,
stracciandomi da lui lontano a forza,
con questa fragil scorza
compiaccio a lei, di penar mai digiuna;
ma con l’affetto, con la voce ardita
voi benedico e lui che mi dá vita.

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     E dico: — O tetti illustri, o benigne acque,
vi fu a gara cortese ogni pianeta
quell’ora santa e lieta,
che vi fe’ chiari di cotanto lume.
In vista riverente e mansueta
la bella imago a tutto il mondo piacque,
ché il giorno, ch’ella nacque,
venne in terra ogni grazia, ogni costume. —
E con questo mirando i fior diversi,
ch’un paradiso sembra di vaghezza,
parmi propio veder il mio tesoro,
u’ con la mente adoro,
quasi lui, quei fior bianchi e gialli e persi;
ma, scosso de l’error, tosto m’aveggio
che voi lo possedete, ed io vaneggio.
     E, raddoppiando le querele e i gridi,
ingombro l’aria de sospir di foco,
e il mio destino invoco
maligno, inesorabile, protervo;
e maledico ogni creato loco,
ov’ogn’altro fuor ch’ei solo s’annidi;
e con orribil stridi
mi disfaccio, disosso, spolpo e snervo.
Poi vòlto in fuga, come offeso cervo
da stral nel fianco, i’ corro ove mi mena
il furor e ’l martír, né so a qual passo:
e di viver piú, lasso,
bramar non oso in sí gravosa pena.
Pur col sperar pietá da lui lontano
il corso fermo, e in parte il mio mal sano.
     Canzon, s’omai piú troppo a venir tarda
qualche soccorso al discontento core,
io morirò di doglia e non d’amore.