e quanti re son tra ’l Gange e l’Ibero,
dal Tane al Nilo fiero
consacrino al tuo nome opre e parole;
spirti di voglie alte, eccellenti e sole
reggin te in libertade ampia ed eterna;
né mai sia il cielo d’aricchirti stanco.
Viva il canuto e bianco,
fin che piace a colui che ci governa,
robusto e sano, e piú fiorita sempre
la gioventú senza cangiar mai tempre.
Voi, mentr’io, lasso, in queste frondi ho stanza,
che fan verde ghirlanda a l’alto colle,
e la mia lingua estolle
l’alma beltade al ciel, da cui diviso
empio fato mi tien col petto molle,
godete la divina sua sembianza;
né mai per lontananza
restate privi del celeste viso,
ché l’angelo, a cui sète paradiso,
raggira in voi, né spiega altronde il volo.
Cosí in disparte lui mi veggo nulla,
ché ’l ciel sin a la culla
mi dié imperfetto qui senza lui solo;
ond’io, col pensier vòlto a’suoi bei rai,
voi e lui di lodar non compio mai:
voi, perché riserrate il piú bel pegno
ch’abbi del suo valor unqua il ciel mostro,
lui, che da l’alto chiostro
scese tra noi per allumar la terra,
e a tempo inver del piú bel stato nostro
si fece del cor mio ricetto degno.
Onde a lodar i’ vegno
l’alta sua gran virtú, che mai non erra.
Cosí piangendo la continua guerra,
con che contende a’ miei desir fortuna,
stracciandomi da lui lontano a forza,
con questa fragil scorza
compiaccio a lei, di penar mai digiuna;
ma con l’affetto, con la voce ardita
voi benedico e lui che mi dá vita.