Rime (Gianni)/Canzoni/Amor nova ed antica vanitate
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XII.
Amor, nova ed antica vanitate,
tu tosti sempre e sei ’gnudo com’ombra,
dunque vestir non puoi se non di guai:
deh! chi ti dona tanta potestate
5ch’umana mente il tu’ potere ingombra,
ed in cui se’, di senno ignudo fai?
Provo ciò; ch’i’ sovente ti portai
ne la mia mente e da te fui diviso
di savere e di bene in poco giorno:
10vegnendo teco mi mirava intorno
e s’io vedea Madonna ch’ha il bel riso,
le sue bellezze fiso — imaginava
e poi, for de la vista, tormentava.
Amor, quando apparisci nuovamente
15d’un angelo ti mostri a simiglianza,
dando diletto e gioia in tuo volare.
Deh! come ben vaneggia quella gente
ch’a la tua fede appoggia sua speranza,
la qual sotto tu’ale fai angosciare!
20Provol; che l’ale me facean penare
più forte assai che l’aquila il serpente,
quando suoi nati divorar volea.
Tanto ho sofferto più ch’i’ non dovea:
chè gran cagion di blasmar mi consente,
25tuo convenente, — e nol vo’più diffendere
chè, s’i’ potesse, ti vorria offendere.
Amor, mendico del più degno senso,
orbo nel mondo nato, eternalmente,
velate porti le fonti del viso:
30deh! quanto si ritruova ogn’uom offenso,
cui corrompi in diletto carnalmente,
po ’l vero lume li spegni nel viso!
Provo ben ciò, che la luce del viso
m’avevi spenta, teco dimorando,
35senza ragion nutricando mia vita
e la memoria avea già si infralita,
che come in tenebre andava palpando,
e quella donna cui dato m’avea
s’i’ la scontrava non la conoscea.
40Amor, infante povero d’etate,
per giovanezza sembri un babbuino
a chi sovente rimira il tuo aspetto;
deh! com’hai poca di stabilitate
che sempre se’ trovato per cammino
45mettendo in corpo umano il tuo difetto!
Provo ciò, che ’l tuo senno pargoletto
m’avea ’l debole cor sorviziato
e l’alma forsennata e l’altre membra,
molte fiate stando teco insembra
50e rimembrando il tu’ giovane stato
dicea: O me, fallace gioventute,
com’hai poca radice di salute!
Amor, infaretrato com’arciero,
non leni mai la foga del tu’ arco
55però tutti tuoi colpi son mortali;
deh! com’ ti piace star presto guerrero,
e se’ fatto scheran che stai al varco
rubando i cori e saettando strali!
Provol, che di colpire a me non cali,
60ch’hai tanto al cor dolente saettato
ch’una saetta lo sportò dal segno,
principio naturato in questo regno
se d’ogni reo di te non son veggiato;
ma poi ch’i’ non so saettar quadrelle
65farò com’ fece Caino ad Abelle.
Amor, poi che tu se' del tutto ’gnudo,
non fossi alato morresti di freddo;
chè se’ cieco e non vedi quel che fai.
Mentre che ’n giovane essenza sarai
l’arco e ’l turcasso sarà tuo trastullo:
non vo’ che m’abbi ornai più per fanciullo:
72come campion ti sfido a mazza e scudo.
Questa canzone fu primieramente stampata nella Giuntina del 1527, e riprodotta, oltre che nelle successive edizioni del 1532 e del 1727, nei
Poeti del primo secolo. Resta in parecchi codici, e autorevolissimi. Le due prime stanze e sei versi della terza restano nel celebre Palat. 180 e vengono dietro a l’ultima stanza d’una canz. di Iacopo Mostacci (Amor ben veggio), che comincia: Donne et amore an fatto compagnia. Il Palermo, tanto benemerito nelle lettere, quanto tenace nei suoi errori (Rime di Dante etc. Appendice etc.) congiunse questi versi di Lapo col frammento del Mostacci e diede tutto al povero Dante. Ma intera la canzone rimane nel Chig. l. viii, 305; nel Laur. xl. 49; nel Parigino it. 554 e nel cod. Bossi della Trivulziana. Diamo le varianti dei codd. e della stampa de’Giunti, per la quale gli editori si servirono di un codice assai diverso da quelli che noi abbiamo consultato, non potendo supporre che le molte varianti che questa canzone presenta siano dovute all’arbitrio di chi curò quella celebre e tanto combattuta raccolta:
1. g. nuova; 2. P. se fosti sempre et sei; 3. C. dunqua; 4. g. podestate; 6. g. e ciaschedun; 7. g. chè sovente; 9. C. gnudo ellei spogliasti; 10. P. stando teco mi; 11. P. mia donna; 14. P. apparisti; 15. C. un angelo, senza di; 18. P. tua fede a posta; 20. C. chell ale; 21. g. l'aquila serpente; C. più fosse assai; 22. P. figliuoli sui; 24. P. che biasimar tuo stato mi consente; 25. C. tu conuenente; difendre; 29. P. le fauci del viso; 30. g. deh, quanto e com' si truova; 32. P. povero lume; C. poi vero lume; 35. C. ragione; 39. C. nolla; 41. g. uno bambino; 42. g. mira; 49. g. in sembra; C. insembla; 50. C. errimembrando; 54. g. non lena; C. nollena; 55. g. tutti i tuoi colpi; 56. C. chon ti p.; 57. C. esse facto scherano; 59. C. anime non chali; 62. g. ma ben possa io morir sotto il tuo regno; 63. g.vengiato; 64. g. che s'io non so ben saettar; 71. g. e sei fanciullo e uuoi pur mostrar drudo; 72. g. vien ch'io ti sfido hor oltre a mazza e scudo; C. maçça scudo.
[Canzone di cinque stanze e congedo, formata tutta di versi endecasillabi. La sua forma schematica non è molto regolare, giacchè solo le stanze 1a e 2a hanno nel primo emistichio del verso dodicesimo una rimalmezzo col verso precedente, ciò che le altre tre stanze non hanno. Ma forse questa canz. è giunta a noi in una forma un po’ guasta, se vediamo che lo schema del congedo, quale sta nella Giuntina, è diverso da quello seguito dal testo chigiano.
Ecco lo schema delle due prime stanze:
ABCABCCDEEDdFF
Le altre tre stanze non hanno la rimalmezzo di Dd. Il congedo nella nostra lezione segue questo sistema:
ABCCDDA
mentre nella Giuntina ha quest’altro sistema:
ABCCDEE.
Ma sì l’uno che l’altro mi sembra alquanto artificioso].