Ricordi del 1870-71/Ricordi di Roma/Preti e frati

Preti e frati

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PRETI E FRATI.


Nelle caserme pontificie si trovarono molte copie d’un inno di guerra, dettato in francese, che par che dovessero cantare gli zuavi andando a combattere. Ha molti punti di somiglianza colla Marsigliese. Ha un ritornello che comincia: Catholiques, debout! Ha una strofa che arieggia quella dell’inno francese: Entendez-vous dans ces campagnes, colla differenza che ai féroces soldats sono sostituiti les barbares. Ha un verso che dice: Viendront-ils nous PRENDRE (ci dev’essere un verbo più feroce, ma non lo ricordo) nos églises, nos [p. 117 modifica]prêtres? E il verso dopo: Non, non, on n’y touchera pas. E altre amenità poetiche su quest’andare.

Ma dal verso in cui è detto che gli Italiani vanno a Roma per far man bassa sulle chiese e sui preti, si capisce che dovette esser quella la finzione di cui si servirono principalmente i fautori del governo papale per suscitare e tener vivo il fanatismo nei soldati, per ispirare nel popolo l’avversione al governo italiano, e per alimentare la diffidenza in quei molti che, pure essendo cattolici in buona fede, manifestavano o lasciavano trapelare sentimenti e desiderii italiani.

Questo fatto spiegherebbe pure l’astensione d’una parte del popolo dalle dimostrazioni entusiastiche così nella città di Roma che nei villaggi della provincia.

A Monterotondo, discorrendo con un cittadino dei più noti, e in voce di liberale, gli domandammo come fosse contento del nuovo stato di cose:

“Per me sono contentissimo;” rispose, e lo diceva sinceramente: “tutto va bene, non si potrebbe desiderare di meglio.” E poi a bassa voce: “Hanno rispettato le chiese, hanno lasciato stare i preti; messe, vespri, funzioni, ogni cosa come prima.”

“Oh curiosa! Ma credeva che si venisse qui a guastare il mestiere ai preti, lei?”

“Io?... nemmen per sogno.”

Certo che lo credeva, e con lui chi sa quanti, che all’entrare dei nostri soldati si saranno chiusi in casa e fatti dar del codino. Ma ora che si son disingannati e rassicurati, non credo che saranno meno sinceramente Italiani degli altri.

Non ricordo in che villaggio, una donna del popolo fermò il primo ufficiale che vide, e gli disse con voce affannosa e supplichevole: “È una buona persona il nostro curato, glie l’assicuro; è un galantuomo; non gli dispiace mica che vengano i soldati del Re; non gli facciano nessun male, lo dica ai soldati, ci faccia questa carità....” [p. 118 modifica]

Quella donna credeva fermamente che il mandato dell’esercito italiano fosse di far la festa ai preti, come diceva don Abbondio. Ora lamentatevi, se vi pare, ch’essa non abbia messo fuori della finestra la bandiera tricolore.

Passava un drappello di seminaristi, per una via di Nepi, poco dopo che v’erano passati i soldati. Un popolano, accennandoli, disse in tuono burlesco: “Ora.... quelli là.... è finita....” E mi guardava.

“Perchè finita?” gli domandai.

“A questi lumi di luna....”

“Ma che lumi di luna! I seminarii e i seminaristi seguiterete ad averli; ce li abbiamo anche noi, e ce li avremo sempre.”

Fece un atto di sorpresa, e poi domandò: “In Italia? Ce li avete anche voi in Italia?”

“Sicuro.”

“E passeggiano per le strade?”

“Passeggiano per le strade.”

“E nessuno gli dice nulla?”

“E cosa volete che gli dicano?”

C’era da perdere la pazienza; mi ripugnava quasi di credere a tanta ignoranza.

In una via remota di Roma, poco dopo l’entrata dell’esercito, si vide un vecchietto che all’aria, doveva aver avuto una tal paura delle cannonate da perdere il lume della ragione. Alla paura delle cannonate gli era poi sottentrata la paura delle dimostrazioni. Passavano alcuni giovani cantando e sventolando bandiere. Non avendo più tempo di fuggire, credette di dover far l’Italiano per non essere accoppato. Cominciò collo sforzarsi a sorridere, e poi, raccolto tutto il suo coraggio, gridò con una voce da moribondo: — Accidenti ai preti!

Le bricconate fatte per viltà sono più rivoltanti di quelle fatte di proposito. Uno dei giovani del drappello lesse nel viso al vecchio e gli disse con piglio [p. 119 modifica]severo: “Per essere Italiano non c’è mica bisogno di dir delle insolenze ai preti, sapete!”

Il vecchio rimase attonito.

“Non ce n’è proprio bisogno,” soggiunse il giovane allontanandosi e continuando a guardarlo. Il povero Italiano fallito non profferì più parola. Anche a lui, certo, era stato dato a credere il viendront-ils degli zuavi.

Un oste, all’apparir dei soldati, s’affrettava a nascondere certi palloncini da luminaria su cui era scritto: W. Pio IX. Un ufficiale lo sorprese, e gli disse:

“Lasciate quella roba dove si trova.”

“Ma io....”

“Lasciatela.”

“Ma io non son mica per il Papa; io son per lor signori.”

“Ma per esser per noi, non c’è mica bisogno di rinnegare il Papa!”

“Ma questa roba....”

“Ma questa roba vi potrà ancora servire, e tra poco, speriamo, perchè le cose s’aggiusteranno.”

“Lei dice bene.”

“E voi facevate male.”

Del resto, i preti mostrarono di non aver le paure che s’adoperavano a mettere negli altri. Mentre nelle vie dei villaggi la buona gente tremava per la loro vita, essi, dalla finestra, assistevano tranquillamente al passaggio dei reggimenti, e molti non abborrivano dall’onorare d’un cortese saluto gli ufficiali a cavallo.

Un solo frate mostrò d’aver paura dei soldati, e fu vicino a Civita. Veniva innanzi con un somarello verso un battaglione di bersaglieri, pallido e tremante, e giunto a pochi passi dai primi soldati, si fermò e giunse le mani in atto di chieder grazia. — Fa nen ’l farseur — gli disse un caporale. Gli altri gli domandarono notizie del Santo Padre. Qualcuno gli offrì del pane. Rassicuratosi, pareva matto dalla contentezza. [p. 120 modifica]

E non mancarono i preti che accolsero festevolmente i soldati. A Baccano un prete e un frate stettero a veder sfilare sei battaglioni di bersaglieri sulla porta del convento, sereni e ridenti ch’era un piacere a vederli. Tutti i soldati, passando, dicevano qualche cosa all’uno, all’altro.

“Si va a Roma, reverendo.”

“Dio v’accompagni!”

“Senti! È dei nostri!”

Il prete si mise una mano sul cuore.

— Viva! viva! si gridò dalle file. E il frate e il prete ringraziarono.

Non ho sentito mai, nè altri può affermare d’aver mai sentito, un soldato dire una parola sconveniente ad un prete. Scherzi, sì; ma urbanissimi, e condonabili sempre alla gaiezza del soldato. Se l’Unità Cattolica osservasse che è inurbanità il dirigere la parola a chi non si conosce, le si potrebbe rispondere che nessuno obbligava i preti a mettersi alle finestre o a piantarsi sull’uscio della casa parrocchiale quando i reggimenti passavano. Se vi stavano, vuol dire che ci si divertivano; non so se ci sarebbero stati quando fossero passati gli zuavi.

Nei primi due giorni non si videro in Roma nè preti nè frati, o almeno pochissimi. Ma non si può dire che stessero nascosti per timore: qual ragione di temere i nostri soldati a Roma più che nella provincia? Stavan chiusi, si capisce, per non aver a prendere parte, neanco come spettatori, alle dimostrazioni del popolo. Tuttavia, ripeto, alcuni se ne videro anche il primo giorno, e passavano in mezzo alle bandiere e alle grida, sicurissimamente, come in casa propria, senza esser nemmeno guardati. E sì che le vie di Roma, stando a quello che scrisse don Margotti, eran piene di facinorosi, di tigri assetate di sangue e di donne di mala vita, tutta gente, come diceva l’oste milanese della Luna piena, latina di bocca e latina di mano. [p. 121 modifica]

La mattina dopo il 20, venendo dal Campo Vaccino sul Campidoglio, la prima cosa che vedo, in cima a una delle grandi scale che danno sulla piazza, è un gruppo di bersaglieri e di frati che se la discorrono fraternamente, seduti sugli scalini. I bersaglieri mangiavano; due o tre frati rivolgevano tra le mani una gamella, guardandola di sopra e di sotto; altri tenevano in mano un pane di munizione; altri osservavano con molta curiosità i cappelli piumati appesi al muro. Ci fosse stato un fotografo! Parevano amici vecchi. A un bersagliere che scendeva domandai: che cosa dicono i frati? — So’ chiù etaliani de noautri, — mi rispose ridendo.

La sera, per le strade, se ne videro molti. Ce n’era di tutti i colori: bianchi, neri, bigi, cacao. Alcuni erano accompagnati da soldati. La gente guardava e rideva. Era infatti una mescolanza così nuova e strana, che pareva di sognare. E il modo con cui andavano assieme! Come fosse la cosa più naturale del mondo, come fossero stati insieme sempre: discorrevano di politica.

Passando in certe strade remote, i soldati vedevano qua e là sparire delle tonache e chiudersi degli usci. Da certe finestre spuntavano visi di reverendi rannuvolati, guardavano intorno come per consultare il tempo, e sentite grida o musiche lontane, richiudevano le imposte. Altri uscivano in fretta da una porticina, si arrestavano a un tratto, come le lucertole, a spiare in giro, e poi via rasente il muro a lunghi passi. Per certe strade quiete e deserte pareva di sentire dei fruscii misteriosi, come di notte per gli anditi delle chiese e delle sagrestie.

Qualche prete, attraversando in fretta via del Corso e travedendo qualche nuova uniforme, si fermava in un canto, fuori della folla, per vedere che bestia fosse. Ne vidi due che sbirciavano da lontano due carabinieri in tenuta di parata. Lo guardarono dalla testa ai piedi, dai piedi alla testa, e poi si consultarono [p. 122 modifica]l’un l’altro tacitamente, stringendo le labbra coll’aria di dire: — Che roba è?

Curiosità n’avevano, certo; ma non guardavano mai diritto. Passando accanto ai soldati, lanciavano occhiate di traverso, rasente il cappello, al di sopra della spalla, tra le dita della mano, o facevano scorrere due dita intorno al collo come per allungarsi il collare, tanto per aver agio di voltare la faccia senza parer di guardare.

Lasciamo gli scherzi; debbono aver detto in cuor loro: — Qual differenza dai nostri zuavi!

Chi avesse visto in viso quei due cardinali, di cui non ricordo il nome, che passarono in carrozza dinanzi ai bersaglieri, presso Castel Sant’Angelo, poco dopo ch’era stato ordinato alle truppe di render loro gli onori come ai principi del sangue; chi avesse visto il sorriso che fecero quando si videro presentare le armi, lo sguardo benigno e gentile che girarono sui soldati, e l’atto di ringraziamento con cui accompagnarono lo sguardo, e la serena e lieta dignità con cui si ricomposero dopo quell’atto; chi li avesse visti avrebbe giurato che un sorriso, uno sguardo e un atto così, quei due cardinali non lo avevano mai fatto ai loro bene amati campioni.

E cardinali, e preti, e frati, se v’era fra loro chi credesse a quello che le femminucce di Civita e di Nepi credevano, e quanti Romani cattolici trepidavano per le chiese e pei sacerdoti, debbono essersi tutti solennemente e irrevocabilmente ricreduti. Sentivano dire che i soldati italiani erano barbari, e non li hanno visti torcere un capello a un reverendo; ch’erano empi, e li hanno veduti affollarsi nelle chiese a baciare i piedi dei santi; ch’erano vandali, e li hanno visti pagare ogni cosa a soldi sonanti, e regalare le pagnotte ai frati; ch’erano licenziosi e insolenti, e hanno sentito dire dai popolani: — Che rarità di soldati son questi che non dicon nulla alle donne! — Volere o non [p. 123 modifica]volere, un grande edifizio di menzogne è caduto, e perdio, si potrà raccoglierne i ruderi, ma non si rifabbrica più.

Quante conversioni politiche hanno fatto i nostri soldati!

Quanto poi ai preti e ai frati, io avrei voluto leggere nel loro cuore la sera del 20 settembre. Se è vero che la meravigliosa dimostrazione di Roma, tanto superiore a ogni previsione e a ogni speranza, abbia più che commosso, sopraffatto e sbalordito nella corte pontificia i più fieri e ostinati nemici d’Italia, che non avrà potuto di più sul cuore dei molti in cui la convinzione era fiacca e la nimicizia determinata solamente dall’interesse? Quelle poche fibre italiane, che il conte di Cavour non voleva credere morte neanche nel cuore del Papa, debbono essersi scosse nel loro cuore la sera del 20 settembre. Le grida e i canti del popolo debbono essere risonati nelle celle silenziose dei monasteri, come un avvertimento, come un consiglio, come un rimprovero. Molti debbono aver invidiato dal più profondo dell’anima quella gioia; debbono aver rimpianto di essersi ridotti in condizione da non poterla godere; alcuni, forse, tendendo l’orecchio alle musiche lontane, debbono aver provato un sentimento di tenerezza mesta ed amara, debbono essersi ricordati di avere una patria, debbono aver sentito che l’amavano; debbono aver profferito in segreto il suo nome, debbono averla invocata, debbono aver domandato con sincere lacrime a Dio che ispirasse nel cuore del Pontefice il bisogno di riconciliarsi con lei, di riconoscerla, di benedirla, di troncare con una parola generosa la guerra insensata che in mezzo a tanta gioia e a tanto affetto li condannava alla solitudine e all’abbandono come rinnegati o stranieri.