Ricordanze della mia vita/Parte terza/II. L'ergastolo
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II
L’ergastolo.
Chi si avvicina a Santo Stefano vede da mare su l’alto del monte grandeggiare l’ergastolo, che per la sua figura quasi circolare sembra da lungi una immensa forma di cacio posta su l’erba. Il gran muro esterno, dipinto di bianco e senza finestre, è sparso ordinatamente di macchiette nere, che sono buchi a guisa di strettissime feritoie, che dánno luogo solo al trapasso dell’aria. Per iscendere sull’isola si deve saltare su di uno scoglio coperto d’alga e sdrucciolevole. Cominciando a salire per una stradetta erta e scabra, si trova in prima una vasta grotta nella quale il provveditor dell’ergastolo suol serbare sue provvigioni; poi montando piú su si vede il dorso del monte industriosamente coltivato. Sino a pochi anni addietro l’isola era tutta selvaggia ed aspra: ora è coltivata, tranne una ghirlanda intorno, dove tra gli sterpi e le erbacce pascono le capre pendenti dalle rocce, sotto di cui si rompe il mare e spumeggia. Su la parte piú larga e piana del monte sorge l’ergastolo. Non si può dire che tumulto d’affetti sente il condannato prima di entrarvi: con che ansia dolorosa si sofferma e guarda i campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrá piú rivedere; con che frequenza respira e beve per l’ultima volta quell’aria pura; con che desiderio cerca suggellarsi nella mente l’immagine degli oggetti che gli sono intorno! Fermato innanzi la terribile porta vede una strada lunga un cento cinquanta passi, in capo della quale un casolare fabbricato sulle rovine della villa di Giulia; e vicino a questo un recinto di mura con una croce che è il cimitero de’ condannati. Se gli è permesso di camminare un poco verso la sinistra dell’ergastolo vede una casetta del tavernaio divenuto coltivatore dell’isola, ed un’altra stradella piú malagevole della prima, per la quale con l’aiuto delle mani e dei piedi scendesi al mare. E null’altro vede, perché null’altro v’è fuorché il mare, ed il cielo, e le isole lontane, e il continente piú lontano ancora, a cui vanamente il misero sospira.
Un edifizio di forma quadrangolare sta innanzi l’ergastolo, e ad esso è unito dal lato posteriore. Il lato anteriore o la facciata di questo edifizio ha due torrette agli angoli, ha cinque finestre, ed in mezzo una trista porta guardata da una sentinella: su la porta scritto questo distico:
Donec sancta Themis scelerum tot monstra catenis
vincta tenet, stat res, stat tibi tuta domus.
«Finché la santa Legge tiene tanti scellerati in catene, sta sicuro lo stato e la proprietá». Parole non lette o non capite dai piú che entrano, ma che stringono il cuore del condannato politico e lo avvertono che entra in un luogo di dolore eterno, fra gente perduta, alla quale egli viene assimilato. Bisogna avere gran fede in Dio e nella virtú per non disperarsi. Varcata la porta ed un androne, si entra in un cortile quadrilatero intorno al quale sono le abitazioni di quelli che sopravvegliano l’ergastolo, magazzini per provvigioni, il forno, la taverna. Custodi dell’ergastolo, come di ogni altro bagno, sono il comandante, che è un uffiziale di fanteria di marina, un sergente, un aiutante che è detto comite, pochi caporali, e bastevol numero di aguzzini; un altro uffiziale comanda un drappello di soldati, i quali guardano l’esterno. Vi sono ancora due preti; due medici, un chirurgo, e tre loro aiutanti; v’è il provveditore, ed il tavernaio. Nel cortile sei circondato dagli aguzzini coi loro fieri ceffi, i quali ti ricercano e scuotono le vesti, ti tolgono la catena se sei condannato all’ergastolo, e te la osservano e ribadiscono se sei condannato ai ferri. Uno scrivano ti domanda del nome e delle tue qualitá personali: ed il comandante, dopo averti biecamente squadrato da capo a piè, ti avverte di non giuocare, di non tener armi, starti tranquillo, se no ci sono le battiture e la segreta: e ti manda al luogo che egli destina, facendoti accompagnare dal sergente e dagli aguzzini.
Dopo il cortile entri in un secondo androne, nel quale un custode apre una porta, e ti fa entrare in uno spazzetto scoperto, chiuso intorno da un muro con palizzata e da un fosso, in cui è un ponte levatoio. Un secondo custode apre un cancello di legno, varchi il ponte, ed eccoti nell’ergastolo. Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi, che sono i tre piani delle celle dei condannati: immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro come una tela immensa, innanzi al quale sta lo spazzetto chiuso dalla palizzata e dal fosso: che nel mezzo di esso muro in alto sta una loggia coverta, che comunica con l’edifizio esterno, e su la quale sta sempre una sentinella che guarda e domina tutto in giro questo teatro: e piú su in questa gran tela di muro sono molte feritoie volte ad ogni punto. Cosí avrai l’idea di questo vasto edifizio, che ha forma maggiore di mezzocerchio, con in mezzo un vasto cortile, ed in mezzo al cortile una chiesetta di forma esagona, chiusa intorno da vetri. Il cortile è lastricato di ciottoli, ha due bocche di cisterne, e tre basi di pietra con ferri che sostengono fanali. Il lastricato e le cisterne son fatte da pochi anni: prima nel cortile erano ortiche e fossatelle d’acqua, dove i condannati andavano a bere, e spesso coi coltelli contendevano per dissetarsi a quelle fetide pozzanghere.
Ciascun piano è diviso in trentatré celle: nel primo e nel secondo piano sono trentatré archi, ciascuno innanzi ciascuna cella: nel terzo piano è una loggia scoperta che gira innanzi tutte le celle, e non è piú larga di quattro palmi. Ogni cella ha una porta ed una piccola finestra ferrata che guardano nel cortile; e nel muro opposto ha un buco o feritoia lunga un palmo, stretta tre dita, dalla quale trapassa l’aria esterna e si può vedere una striscia di mare. Il primo piano è a livello del cortile, e tiene innanzi un muro con sopra una palizzata: onde chiamasi le barriere, anche perché è scompartito da mura in varie porzioni ciascuna contenente diverso numero di celle. Nello spazio tra la palizzata e le celle passeggiano i condannati; ed è brutto di fango e di acqua che vi gittano o vi cade da sopra. Per montare ai piani superiori vi sono due scale a destra ed a sinistra della gran tela di muro; ma chiuse da cancelli di legno tenuti da custodi. Il secondo piano ha innanzi una loggia coverta formata da un secondo ordine di archi, e larga quanto quella del terzo piano; ed è diviso in due porzioni. Nel terzo piano le ultime undici celle sono divise dalle altre, ed addette ad uso di ospedale: e queste sole invece di buchi esterni hanno finestrelle ferrate dalle quali si può vedere un po’ di verde e la vicina Ventotene; hanno invetriate, e pareti bianchite. Una metá delle celle del primo piano è destinata per un centinaio di condannati ai ferri: in tutte le altre celle sono gli ergastolani: nell’altra metá del primo piano i piú discoli; nel secondo i meno tristi; nel terzo quelli che han dato pruova di esser rassegnati. I soli condannati a ferri hanno la catena che li accoppia, e possono passeggiare nel cortile. Tra essi i fortunati vanno soli, portando o tutte le sedici maglie della catena o pure otto maglie: i fortunatissimi ne portano quattro e fanno uffizio di serventi o di cucinieri, votano i cessi, portano acqua, vanno a spendere alla taverna: sono beati quei pochi che escono fuori a lavorare la terra. Gli ergastolani non hanno catena; ma nessuno può uscire del suo piano e del suo scompartimento, un tempo nessuno poteva uscire della sua cella. Queste divisioni sono necessarie per impedire le continue risse che nascono per stolte e turpi cagioni, e pel sempre funesto amore di parti; dappoiché questi sciagurati, che una pena tremenda dovrebbe unire, sono divisi tra loro secondo le province: e siciliani, calabresi, pugliesi, abruzzesi, napoletani si odiano fieramente fra loro, spesso senza cagione e senza offese; e se per caso si scontrano si lacerano come belve e si uccidono. Non si cerca di spegnere questi odi di parte, perché per essi si hanno le spie, si vendono favori, si fanno eseguir vendette, si fa paura a tutti: una è l’arte di opprimere, ed ogni malvagio la conosce.
Per questa condizione de’ luoghi e degli uomini, gli ergastolani non hanno altro spazio che le celle e la stretta loggia, dalla quale invidiando guardano il cortile dove non possono passeggiare, ed il cielo che è terminato dalle alte mura dell’ergastolo, e che come un immenso coverchio di piombo ricopre il tristo edilizio e ti pesa sull’anima. Se passa volando qualche uccello, oh come lo riguardi con invidia, e lo segui col pensiero e con la speranza stanca, e con esso voli alla tua patria, alla tua famiglia, ai tuoi cari, ai giorni di gioia e di amore, che sempre ti tornano a mente per sempre tormentarti. Ma neppur puoi star molto su questa loggia ingombra di masserizie e di uomini che ti urtano, gridano, cantano, bestemmiano, accendono il fuoco, fendono legne: e poi nel cortile non vedi che condannati trascinare penosamente le sonanti catene, taluno d’essi con oscena voce andar gridando: «Vendiamo e mangiamo»: spesso vedi lo scanno sul quale si dánno le battiture, spesso la barella con entro cadaveri di uccisi. Il vento ti molesta, il sole ti brucia, la pioggia ti contrista, tutto che vedi o che odi ti addolora, e devi ritirarti nella cella.
Ogni cella ha lo spazio di sedici palmi quadrati e ce ne ha di piú strette: vi stanno nove, dieci uomini e piú in ciascuna. Son nere ed affumicate come cucine di villani, di aspetto miserrimo e sozzo; con i letti squallidi e coperti di cenci, che lasciano in mezzo piccolo spazio; con le pareti nere dalle quali pendono appese a piuoli di legno pignatte, tegami, piattelli, fiaschi, agli, peperoni, fusa, conocchie, naspi, ed altre povere e sudice masserizie: una seggiola è arnese raro, un tavolino rarissimo. È vietato ogni arnese di ferro e persino i chiodi, le forchette, i cucchiai, le bilance sono di legno, ed invece di coltellaccio per minuzzare il lardo usano un osso di costola di bue. Con un’industria incredibile fendono grossi ceppi e tronchi di alberi mediante piccolissimi cunei di ferro, non permessi ma tollerati, e però da essi nascosti. Chi non vuole il cibo cotto in comune, e che non è altro che fave o pasta, lo cuoce da sé in fornacette di tufo, che si mettono sul davanzale della finestra ed anche sulle tavole del letto. Pochi fanno comunanza, perché il delitto li rende cupi e solitari: spesso ciascuno accende il suo fuoco, donde esce un fumo densissimo che ingombra tutta la cella e le vicine, ti spreme le lagrime, e ti fa uscire disperatamente su la loggia, dove trovi altre fornacette accese che fumano; ed invano cerchi un luogo non contristato dal fumo, che esce dalle porte, dalle finestre, da ogni parte. Alle due pareti opposte della stanza è legato uno spago, dal quale pende una canna, che dall’altro capo fesso in su tiene sospesa una lucerna di latta, la quale con questo ingegno può portarsi qua e lá, e pendere nel mezzo della stanza per dar lume la sera a tutti che fanno cerchio intorno e filano canape.
Tetre sono queste celle il giorno, piú tetre e terribili la notte; la quale in questo luogo comincia mezz’ora prima del tramonto del sole, quando i condannati sono chiusi nelle celle, dove nella state si arde come in fornace, e sempre vi è puzzo. O quanti dolori, quante rimembranze, quante piaghe si rinnovellano a quell’ora terribile! Nel giorno sempre aspetti e sempre speri: ma quando è chiusa la cella ed alzato il ponte levatoio, piú non aspetti e non speri, e ti senti venir meno la vita. Allora non odi altro che strani canti di ubbriachi, o grida minacciose che fieramente echeggiano nel silenzio della notte, come ruggiti di belve chiuse; talvolta odi un rumor sordo ed indistinto di gemiti o di strida, e la mattina vedi cadaveri nella barella. Quando stanco di ozio, d’inerzia, e di noia cerchi un po’ di riposo e di solitudine nel duro e strettissimo letto, mentre dimenticando per poco gli orrori del luogo corri dolcemente col pensiero alla tua donna, ai tuoi figliuoletti, al padre, alla madre, ai fratelli, alle persone care all’anima tua, senti il fetido respiro dell’assassino che ti dorme accanto, e sognando rutta vino e bestemmia. O mio Dio, quante volte io ti ho invocato in quelle ore di angosce inesplicabili! quante volte con gli occhi aperti nel buio io ho vegliato sino a giorno fra pensieri tanto crudeli, che io stesso ora mi spavento a ricordarli!
Ritorna il giorno, e ritornano i suoi dolori, e l’un giorno non è diverso dall’altro. Sempre ti stanno innanzi gli stessi oggetti, gli stessi uomini, gli stessi delitti, le stesse azioni. Ogni giorno primamente ti si porta un pane; poi una porzione di orride fave o di arenosa pasta; che molti prendono cruda e poi cuocciono essi stessi con miglior condimento, poi cinque grani ai soli condannati all’ergastolo. Due volte il mese ti si dá un pezzo di carne di bue: son due giorni di festa, in cui si beve piú vino, e si fanno piú delitti. Quando il mare non è agitato vengono alcune donne da Ventotene: portano a vendere pesce e verdura, e comperano il nero pane dei condannati col quale sostengono sé stesse e i loro figliuoli. Tanta miseria è in quell’isola, che di lá si viene a spendere nella taverna dell’ergastolo. Sebbene il continente sia poco lontano, pure raramente vengono barche, e se vengono ed approdano a Ventotene, non sempre si può traversare il canale su i battelli e venire a Santo Stefano, dove spesso si manca anche del necessario alla vita. Anche piú raramente hai lettera o novella della tua famiglia. Ogni lettera che ricevi o mandi deve essere letta, ogni oggetto rivolto e ricercato per ogni parte. La prima lettera che io ebbi, e che io tanto avevo aspettata, mi strappò molte lagrime, e mi rendette convulso per piú giorni. Io serbo ancora quella prima lettera, unita ad un’altra della mia figliuola Giulietta che mi fu conceduta di tener caramente stretta in mano durante quei due giorni che io stetti condannato a morte in cappella; perché mi pareva che tenendola in mano io sarei morto abbracciando e benedicendo i miei figliuoli. Qui dunque si vive a discrezione de’ venti e del mare, divisi dall’universo, e sofferendo tutti i dolori che l’universo racchiude.