Ricordanze della mia vita/Parte prima/II. Il collegio

II. Il collegio

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II

Il collegio.

Il collegio di Maddaloni passava per uno dei migliori del regno, ma era come gli altri: una prigione d’un centinaio di fanciulli che stanno inginocchiati o seduti la maggior parte del giorno ed apprendono dottrina cristiana e lingua latina. Un prefetto, prete ignorante e villano, educa e guida una ventina di quelle creature, che imparano a temere e odiare quel loro tiranno, il quale sta sempre col viso arcigno e pronto a scoccare il castigo. Non hanno piú le guance incarnate, e quasi non sanno piú muoversi, perchè dentro stanno inchiodati su le seggiole, e se escono vanno in fila con gli occhi bassi: recitano sempre rosarii, litanie, angelus, e con lo stesso tuono anche le lezioni di scuola. Educare lí non è altro che spezzare ogni volontá nei giovanetti, non farli ragionar mai, ridurli a stupida e fratesca obbedienza. Imparano cose inutili, e non amano lo studio donde non traggono alcuna dolcezza; escono di collegio ignoranti ed increduli per istizza. Per buona fortuna il collegio di Maddaloni allora aveva professori bravi e non tutti preti, ai quali io mi affezionai; e specialmente a Vincenzo Amarelli, calabrese di Rossano, giá alunno del collegio, e poi maestro. Questi aveva grande amore ai viaggi, e ogni anno al tempo delle vacanze faceva sue escursioni, e viaggiò tutta Europa, e molte parti dell’Asia, e dell’Africa, e l’America, ed è morto professore nell’universitá di Filadelfia. Egli allora c’insegnava la storia, la geografia, ed il latino nelle favole di Fedro, e insegnava con modi ed aria militare, e ci teneva tutti attenti, e noi gli volevamo gran bene, e si studiava con ardore grande. Egli sapeva il gran segreto dell’insegnamento, fare innamorare i giovani. Una volta si spiegava Fedro, c’era la parola saxa, che fu definita bene secondo [p. 9 modifica] grammatica, poi il maestro dimandò: «Chi ci ha a dire qualche erudizione?». Tutti tacevano, io levai la mano, chiesi la parola, e dissi che saxa erano le ossa della gran madre, e recitai la favola di Deucalione e Pirra. «Bravo, dieci punti». Mi ricordo ancora di quel trionfo, e una volta quando ero giá uomo e rividi l’Amarelli ricordammo insieme le ossa della gran madre.

L’amore che io avevo ai libri mi era stato istillato nell’animo dal caro e benedetto padre mio, il quale era poeta, e aveva fatto versi improvvisi, e ne scriveva che mi piacevano tanto, ed era bel parlatore, e mi ragionava sempre di uomini grandi e della bellezza del sapere, e mi diceva sempre che nei libri si trova tesori inestimabili. «Quando tu leggerai e intenderai bene Virgilio, Lucrezio, Livio, Cicerone, e poi quando saprai il greco e leggerai Omero, Sofocle, Tucidide, tu ti sentirai piú che uomo, ci troverai bellezze divine, sapienza profonda: e se tu lavori, e Iddio ti benedice, tu potrai essere grande anche tu.» Onde io avevo fitto in mente queste parole, e cercavo libri, e studiavo, e credevo di trovarli davvero quei tesori. Ma cava, fatica, suda, il mio tesoro è stato carboni. Povero babbo mio, s’immaginava che io avrei potuto essere qualcosa in questo mondo ed io feci l’asso.

Dopo un paio d’anni che io stavo in collegio mi venne una grave malattia agli occhi, per la quale tornai a casa e stetti molti mesi al buio in una stanza. Credevo che sarei diventato cieco, e dicevo: «Sarò come Omero»: e queste parole trafiggevano i miei genitori che avevano fatto su di me tanti disegni, e spendevano tanti danari per risanarmi. Infine con un occhio mezzo perduto rientrai nel collegio, dove un prefetto si pensò di guarirmi con un nuovo rimedio, e, a suo credere, infallibile. Udite.

Nel 1824 accadde un fatto degno di memoria. Fuori di un villaggio detto San Nicola, non lungi da Caserta, presso le mura di una cappelluccia caduta in rovine, una mano di fanciulli giocavano a le piastrelle. A un tratto esce dalle rovine una signora: i fanciulli selvatichi e impauriti fuggono: resta [p. 10 modifica] uno piú ardito a nome Pascariello, che la riguarda: ella lo carezza, gli dice qualche parola, e va via. Pascariello corre da una zia monaca, e conta dell’apparizione della signora. «È la Madonna», disse subito la monaca, e si mosse a chiamar le vicine, e gridare miracolo. Le comari accerchiano Pascariello, e lo dimandano: «Di’? come era bella? era vestita di bianco? aveva gli occhi lucenti come il sole? Ah, certamente quella Madonna che sta lì dentro ti ha pariato, e ti ha detto che noi ci siamo dimenticati di accendere la lampada nella cappelluccia». Conducono Pascariello dal parroco, il quale lo interroga, e Pascariello risponde che una bella signora vestita di bianco e con gli occhi come il sole lo ha carezzato, e gli ha detto: «Di’ a zia monaca che si e dimenticata di accendere la lampada». Gli altri fanciulli ripetevano anch’essi di aver veduto da lontano la bella signora vestita di bianco. Tosto si andò alla cappelluccia rovinata, e trovatavi una vecchia immagine della Vergine dipinta sovra un muro, ne la staccano, la inquadrano in legno, la espongono in chiesa all’adorazione di tutti con molte lampade e candele accese. La fama si sparse tosto nei paesi vicini, e la gente vi traeva a calca: poi nei paesi lontani e per tutto il regno, per modo che a migliaia le persone di ogni condizione ci venivano, e furono fatte molte baracche per alloggiarle. I miracoli eran grandi, frequenti, e innanzi agli occhi di tutti. Si vedeva uno che andava su le grucce prostrarsi innanzi l’immagine, pregare, piangere, strillare, e subito gettar via le grucce, levarsi in piè e camminare. Altri che pareva cieco, come gli ungevano gli occhi con l’olio d’una lampada che ardeva innanzi la Madonna, a un tratto li apriva e vedeva. Altri portato in letto quasi moribondo, levarsi, e a gran voci gridare: «grazia, grazia». Ad ogni miracolo di questi le grida, i pianti andavano alle stelle. Innanzi alla Madonna stavano tre botti, una piccola dove si gettava monete, anelli, orecchini, collane, ogni cosa d’oro: una mezzana dove si poneva l’argento, ed una grande pel rame, sopra una panca era una catasta di candele di cera; presso le botti il parroco ed altri preti cantavano [p. 11 modifica] salmi e litanie. Io mi ricordo di aver veduto io molti uomini e donne scalzi, con corone di spine in capo e con rosarii in mano, andare cantando in processione a San Nicola, e di avere udito raccontare queste cose da molte persone che vi andavano e le vedevano con gli occhi loro, e per molto tempo non si parlava di altro.

Tutti volevano vedere Pascariello, il quale era tenuto chiuso in casa dalla zia monaca, e quando usciva balordo sul balcone, tutti gli scoccavano baci e benedizioni, ed ei mangiava ciliege e gettava giù i noccioli, e la gente si accapigliavano per raccoglierli e di sotto spiegavano i fazzoletti. I venditori di frutte, di pesce, e di altri cibi, presentavano la cesta al monello, gliene facevano prendere quanto voleva, e poi gridavano: «Il pesce benedetto da Pascariello, i frutti benedetti da Pascariello!» e tutti comperavano e mangiavano santamente. Il ragazzo stupito non sapeva dove si fosse: e lo avrebbero fatto in minuzzoli per prendersene ciascuno un pezzetto come reliquia: onde l’intendente della provincia, marchese di Sant’Agapito, se lo meno a casa sua e lo fece custodire.

Intanto il governo, per vergogna o per sospetto di tanta gente riunita, pose guardie sul luogo; e la madonna, come ogni altra persona, ubbidí alle guardie, non fece piú miracoli: la folla sparí, e a poco a poco fu dimenticata la cosa. Ma le ricchezze raccolte furono tante, che, sazio il parroco e gli altri che tenevano il sacco, del rimanente fu edificata una chiesa, nella quale ancora si vede la madonna di Pascariello, e presso la chiesa un bel monastero dove oggi sono raccolte ed educate le fanciulle povere. Pascariello di Caserta fece un’ottima riuscita: fu messo nell’albergo dei poveri in Napoli, dove diventato giovanetto diede una coltellata ad uno, e fu condannato a la relegazione nell’isola di Ponza: quivi l’ebbe egli una coltellata da un altro, e cosí volò in paradiso. Io quando divenni giovane conobbi la signora che ancora era bella e galante, e che senza volerlo e senza meritarlo, fu pigliata per la Madonna e fece nascere tanto rumore, ma non [p. 12 modifica] ho potuto saper mai come diamine sparí il capitano de’ lancieri, che era con lei nella cappelluccia e non fu veduto né mentovato dai fanciulli.

Quel mio prefetto adunque andò anch’egli a San Nicola, e intinto un fazzoletto bianco nell’olio d’una lampada che ardeva fra tante innanzi la madonna, me lo portò e disse: «Metti questo sugli occhi, recita tre avemarie, abbi fede, fede viva, ed aspetta il miracolo». Feci come ei volle, ed aspettai un pezzo: ma debbo dire che ebbi poca fede; e forse per manco di fede mi trovo manco buoni gli occhi.

Fra i compagni io mi strinsi in amicizia con Luigi de Silva, giovanetto di molto ingegno, e piú innanzi di me negli studi. Ragionavamo sempre delle antiche storie e degli antichi uomini di Roma, e ci pareva di essere nati troppo tardi in un’eta di poltroni e di servi. I compagni, noiati delle nostre sentenze, ci davano la baia e ci chiamavano i dottorelli. Io non la potevo inghiottire, e mi sentivo pungere non tanto per me quanto pel mio De Silva, che era piccolino di corpo, ma grande d’ingegno; sicché un giorno perdetti pazienza, menai di buone pugna e ne toccai: ebbi un castigo, ma nessuno piú mi disse in viso quella parola. Il De Silva mi leggeva spesso certe sue traduzioni delle piú belle odi di Orazio, e luoghi di Livio, e versi latini che egli scriveva facilmente. Io lo ascoltavo con ammirazione, e vidi che talvolta da un compagno si apprende meglio che da un maestro! Leggevo libri latini, e dove non intendevo, ne domandavo lui: e cosí in breve tempo intesi mediocremente il latino, e tirai giú il primo epigramma, che mandai a mio padre.

Ero lieto di que’ miei studii, e fui piú lieto ancora della compagnia del mio diletto fratello Peppino, che entrò anch’egli nel collegio: ma indi a pochi mesi ci sentimmo colpiti da un fulmine, perdemmo nostra madre. Oh! quello fu dolore che non ho dimenticato mai, ed anche oggi dopo tanti anni e tante ferite che porto su l’anima io non posso ripensare a quell’angelo della madre mia senza lagrime. Ella si morí sopra parto, di trentasette anni, il 14 marzo 1825, e non ci rivide [p. 13 modifica] prima di morire. La pietá piú grande fu quando andammo per un giorno a riveder nostro padre, che era ammalato, e aveva intorno a sé gli altri figliuoli, Giovanni, Vincenzo, Teresa, Alessandro, tutti bambini e vestiti a bruno che ci vennero incontro con lagrime e strida; e nostro padre pallido e sfigurato dal dolore ci disse: «Ella prima di partire vi ha benedetti, ed io vi benedico tutti, o figli miei, in nome di vostra madre». La nostra casa era una spelonca: per ogni stanza cercavo la mamma, e la mamma non c’era piú. Quella giornata e quel dolore furono amari assai. Chiunque mi ha parlato di lei mi ha detto sempre che ella era una donna rara di bontá e di senno: e le sorelle di mio padre sue cognate mi dicevano: «Tua madre aveva la testa di Napoleone, sapeva fare tutto e vinceva sempre».

Era l’anno del giubileo 1825, ed essendo l’animo mio cosí addolorato giunse il tempo degli esercizi spirituali che si facevano nei collegi ogni anno. Ci venne un vecchio arciprete: (Miele: era tutto bianco nei capelli e acceso di volto), che parlava molto semplice e acconciamente, ed io mi sentivo entrare nell’anima le parole di quell’uomo di Dio, e vi facevo su lunghe meditazioni. Il De Silva ne fu colpito anch’egli, ed entrambi cominciammo a ragionare della gran vanitá di questo mondo, della morte vicina, dell’inferno spalancato innanzi ai nostri piedi, e delle gioie del paradiso. Ogni stella che ci vedevamo splendere sul capo ci pareva la faccia di un angelo o di una vergine che ne sorrideva e ci chiamava lassú a vedere le bellezze del cielo e a cantare le lodi di Dio. Ci demmo alla piú focosa devozione: non piú scherzi, non giuochi, non ballo, non scherma, ché ne parevano cose profane; anzi le stesse lezioni di scuola erano mondanitá, le facevamo per obbligo, poi a leggere vite di santi, prediche, salmi, orazioni. Lo volevo intonare sempre io il rosario per farlo recitare piú adagio, ed in fine delle litanie aggiungevo una ventina di santi, senza curarmi che alcuno dei compagni si contorceva, e dicevami sottovoce: «Finiscila a canchero ché mi fanno male le ginocchia». Ogni sera prima di andare a [p. 14 modifica] letto stavo almeno un’ora con la faccia per terra a recitar paternostri, avemarie, e salveregine. Ci chiamavano i monaci, perché noi dicevamo che non si può essere santo se non si è frate, e il De Silva voleva farsi trappista, io camaldolese o almen cappuccino. A mio padre scrivevo le piú nuove e lunghe lettere, gli parlavo della caducitá delle cose umane, delle false promesse del mondo, e ad ogni paio di versi un passo della Bibbia: infine una volta gli scrissi che sentivo la vocazione di farmi frate, e lo pregavo di mettermi in un monistero. Mio padre mi lasciò dire, io replicavo, in fine mi rispose secco secco: «Va bene, studia per ora, e quando avrai diciotto anni ne riparleremo». A queste parole io risposi con una lettera che cominciava «Jesus, Maria, Joseph» e finiva «Vostro figliuolo nella carne Luigi». «No, padre mio, subito, subito, si tratta dell’anima, et periculum est in mora. È vocazione, Dominus vocavit, et auscultabo. Io mi ritirerò dal mondo in un deserto, e farò penitenza dei peccati miei, e anche dei vostri, o padre mio».

Immaginate come si turbo mio padre a leggere che io volevo far penitenza anche dei peccati suoi! Corse al collegio, mi fece passare in un’altra camerata e dividere dal De Silva, e a me non disse altro se non: «Attendi ad essere uomo, e non scrivere sciocchezze». Io credetti di essere un martire, e raddoppiai fervori e paternostri. Il De Silva ed io ci scrivevamo epistole che i compagni di scuola ci recavano. Egli spesso mi mandava epigrammi ed odi latine in onore di certi santi che io non so donde li cavava; ed io che non era sí forte nei versi latini, per non parere da meno, scrivevo oremus, e dei buoni, lunghi, sonanti, con infine l’omnia saecula saeculorum, e li raccolsi tutti in un libretto che doveva essere un volume delle Opera omnia. Seguitavo intanto a sermonare scrivendo a mio padre, il quale vedendomi incaponito in quella fantasia di farmi frate, per non perdermi e per altre sue buone ragioni, ritirò me e mio fratello Peppino dal collegio sul finire dell’anno 1826. In casa trovammo una madrigna, che fu buona con noi e con nostro padre.