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14 parte prima - capitolo ii


letto stavo almeno un’ora con la faccia per terra a recitar paternostri, avemarie, e salveregine. Ci chiamavano i monaci, perché noi dicevamo che non si può essere santo se non si è frate, e il De Silva voleva farsi trappista, io camaldolese o almen cappuccino. A mio padre scrivevo le piú nuove e lunghe lettere, gli parlavo della caducitá delle cose umane, delle false promesse del mondo, e ad ogni paio di versi un passo della Bibbia: infine una volta gli scrissi che sentivo la vocazione di farmi frate, e lo pregavo di mettermi in un monistero. Mio padre mi lasciò dire, io replicavo, in fine mi rispose secco secco: «Va bene, studia per ora, e quando avrai diciotto anni ne riparleremo». A queste parole io risposi con una lettera che cominciava «Jesus, Maria, Joseph» e finiva «Vostro figliuolo nella carne Luigi». «No, padre mio, subito, subito, si tratta dell’anima, et periculum est in mora. È vocazione, Dominus vocavit, et auscultabo. Io mi ritirerò dal mondo in un deserto, e farò penitenza dei peccati miei, e anche dei vostri, o padre mio».

Immaginate come si turbo mio padre a leggere che io volevo far penitenza anche dei peccati suoi! Corse al collegio, mi fece passare in un’altra camerata e dividere dal De Silva, e a me non disse altro se non: «Attendi ad essere uomo, e non scrivere sciocchezze». Io credetti di essere un martire, e raddoppiai fervori e paternostri. Il De Silva ed io ci scrivevamo epistole che i compagni di scuola ci recavano. Egli spesso mi mandava epigrammi ed odi latine in onore di certi santi che io non so donde li cavava; ed io che non era sí forte nei versi latini, per non parere da meno, scrivevo oremus, e dei buoni, lunghi, sonanti, con infine l’omnia saecula saeculorum, e li raccolsi tutti in un libretto che doveva essere un volume delle Opera omnia. Seguitavo intanto a sermonare scrivendo a mio padre, il quale vedendomi incaponito in quella fantasia di farmi frate, per non perdermi e per altre sue buone ragioni, ritirò me e mio fratello Peppino dal collegio sul finire dell’anno 1826. In casa trovammo una madrigna, che fu buona con noi e con nostro padre.