Ricordanze della mia vita/Appendici/III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso/Capo I. - Mia vita ed opinioni

Capo I. - Mia vita ed opinioni

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Appendici - III. Difesa di Luigi Settembrini scritta per gli uomini di buon senso Appendici - Capo II. - Processo a me particolare. Addentellati in altri processi

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CAPO I

mia vita ed opinioni


Cittadini miei, io sono accusato di delitto contro lo stato, pel quale mi vorrebbero mandare alla forca: onde ho risoluto di difendermi innanzi la corte criminale ed innanzi a voi, perché le cause politiche non appartengono solamente a chi ha la disgrazia di essere accusato, ma a tutta una cittá, a tutta una nazione. Se mi siete amici o nemici, se mi credete del partito vostro o del contrario, per ora poco importa: ma se avete un poco di buon senso, abbiate la pazienza di leggere questo scritto; ché infine ci troveremo d’accordo; forse mi vorrete bene, come io ne voglio a tutti e sento di non odiare nessuno. Ma prima voglio dirvi quale è stata la mia vita, quali furono sempre i miei sentimenti e le mie opinioni; affinché non facciate come fanno tutti, i quali se odono una voce che dice, «il tale è un eroe», tutti ripetono «è un eroe», [p. 502 modifica] se dice, «è un birbone», ripetono, «è un birbone». Conoscetemi prima, e poi giudicatemi.

Io mi son uno che ho vissuto sempre fra i libri, dai quali sventuratamente ho cavato pochissimo profitto e molti dolori: nel mondo porto una faccia di mezzo balordo, e parlo poco perché non so parlare. Aveva ventitré anni, e dopo un esame in concorso fui eletto professore d’eloquenza nel liceo di Catanzaro. Dopo tre anni e mezzo nel 1839 fui accusato insieme con altri di appartenere alla giovine Italia e condotto a Napoli fui gettato in un criminale, dove stetti per ventisei mesi senz’altra compagnia che le mie sventure e quelle della povera mia famiglia. Fui giudicato dalla commissione di stato, tribunale che faceva spavento pel processo segreto, l’avvocato officioso, la procedura breve, e il presidente Girolami: ma, conosciuta la nostra innocenza, ci assolveva. Allora il ministro di polizia, che ci voleva condannati, diceva al re, che la commissione era stata ingiusta, noi rei: e però proponeva di far rivedere il processo, e mandar noi provvisoriamente in galera. Il re giusto non permise si violasse il giudicato, comandò che ciascuno di noi tornasse al suo paese; ed io perché napolitano rimasi in Napoli. Uscii finalmente nel 1842 dopo tre anni e mezzo d’immeritata prigionia, dopo quindici mesi che fui assoluto. Non ho cuore di ricordarmi quello che ho patito in quei terribili tre anni e mezzo, perché la memoria dei grandi dolori è sempre un dolore: e farei piangere ognuno se narrassi quello che patí la povera moglie mia, la quale mi diede una figliuoletta mentre io era in criminale e non potetti vederla e benedirla; la quale sofferí ogni dolore, ogni piú crudele angoscia; parlò per me ai giudici, ai ministri, al re; sofferiva piú di me, e mi nascondeva le sue sofferenze per non accrescere le mie. Ritornato fra gli uomini vivi, mi furono chiuse tutte le vie per procacciarmi un pane onorato, mi fu negato di aprire uno studio di letteratura, si volle che io vivessi soltanto per sofferire, si tollerò che andassi correndo ed insegnando per le case altrui. Strascinai questa vita sino al 1848 dividendo i pensieri e gli affetti tra la mia famiglia e i miei studii, ignoto quasi a tutti, sempre solitario, non diedi alla polizia alcuna cagione di riprendermi in minima cosa.

Mutarono i tempi ma io non mutai la mia vita ed i miei desiderii. Il re generosamente ci diede una costituzione, ed io me ne rallegrai, perché vedeva che questa sarebbe un gran bene pel re e pel popolo, perché sperava finiti gli abusi, le ingiustizie, gli [p. 503 modifica] arbitrii, che aveano prodotto per ventotto anni tanto male al nostro straziato paese. Onde tra i primi e pazzi furori della stampa io scriveva il 18 febbraio una lettera ai ministri, nella quale li pregava di essere forti e giusti, non distruggere tutto il vecchio perché il vecchio non era tutto pessimo; diceva non essere né giusto, né onesto, né utile che quegli uomini i quali in tempi corrotti servirono lealmente il re, e non abusarono del potere che avevano, fossero mandati giú in fascio coi ribaldi: diceva che resistessero forte alle sfrenate ambizioni di alcuni che si dicevan martiri perché avevan gridato un evviva o erano stati tre giorni in prigione: desiderava che la Sicilia fosse tornata al nostro principe, che nessuno avesse dormito, avesse mangiato, si fosse riposato, prima di finir questo affare: e pregava la maestá del re ed i ministri di provveder presto a questo male. Quantunque io avessi scritta questa lettera, nella quale io non raccomandava altro che la giustizia, e diceva cose approvate dai saggi; pure ebbi fama di fiero e velenoso scrittore, mi credettero autore di tutti i giornali, attribuirono a me tutte le stampe ingiuriose al governo ed ai privati; onde io fui, e sono ancora, fieramente odiato da molte persone che si tengono offese da me, il quale conosco pochissimi, onoro tutti, e non so offendere nessuno. Invano io diceva a tutti: «Non son io che scrivo, no, ma è chi è pagato per seminare discordie e partiti, per aizzar gli animi, per far nascere turbamenti, per toglierci la costituzione che il re ci ha data». Invano nel mese di marzo io dichiarava nel giornaletto il Lume a gas che io non scriveva in alcun giornale, non offendeva nessuno, rispettava la Costituzione ed il re, badava ad ammaestrare i giovani, e consigliava a tutti di mettersi un sughero in bocca ed un rotolo di neve in capo. Fu tutto invano: quegli stessi che per prezzo o per malvagio animo scrivevano per turbare il paese, gridavano: «Settembrini scrive»: ed il volgo vestito di vari colori, sempre bestiale e superlativo, ripeteva, che io scriveva: gli offesi si sdegnavano contro di me, e taluno mi minacciò di battiture e di morte. La cagione di questa fama io non voglio dirla, ma tutti la sanno e la dicono. Ma io sperava nel tempo, sprezzava queste voci, ringraziava Iddio ed il re che ci aveva dato uno statuto: per me non voleva altro bene particolare che aprire uno studio, ammaestrare la gioventú, stampare senza revisione qualche mia povera scrittura letteraria: chi vive di studi non ha maggiori bisogni di questi. [p. 504 modifica]

Ma l’onorevole mio amico, ed ora compagno di sventura, barone Carlo Poerio, allora ministro della pubblica istruzione, credette che io potessi essere utile come capo di ripartimento in quel ministero, mi fece forza ad accettar questo uffizio, e mi propose al re, che benignamente approvò la proposta il 22 marzo 1848. Stetti in uffizio modestamente, non feci male a nessuno, feci tutto il bene che potei, non permisi si violasse la giustizia per favori di partito; e chi può rimproverarmi del contrario si levi e mi accusi. L’uffizio nuovo e grave per me vissuto sempre lontano dalle faccende, il continuo mutar dei ministri che pel breve tempo e le gravi quistioni politiche non potevano fare alcun bene, le ambizioni e la petulanza di molti mi turbarono l’animo, e mi fecero desiderare la pace della vita privata, e quei cari giovani che io ammaestrava, che io tanto amava, e che tanto mi amavano. E però il giorno 13 maggio, che fu sabato, scrissi la mia rinunzia e voleva farla stampare; ma non potetti la domenica, né il sanguinoso lunedí. Il 21 maggio scrissi quest’altra, che è breve, e la mandai al ministro Bozzelli: «Per non rubar tempo a lei, che è ministro, e per non perderne io, non vengo a parlarle: le scrivo ed è tutt’uno. Fin da sabato 13 maggio io aveva deliberato di rinunziare al mio uffizio di capo di ripartimento nel ministero d’istruzione pubblica, ne aveva scritto le ragioni, e voleva stamparle. Ora alle vecchie ragioni si aggiungono le nuove; per le quali tutte io non posso, non voglio, non devo rimanere piú in uffizio: sarei inutile alla mia patria, di vergogna a me stesso. Si compiaccia V. E. di fare accettare dal re questa mia irrevocabile rinunzia». Il Bozzelli non l’accettò, e non la ricusò: ma io non andai piú al ministero, e mi posi tranquillamente ad insegnare.

Né mai si potrá dire che io rinunziai perché abborriva quel governo ed amava le sedizioni. Dappoiché nel mese di giugno, mentre piú ferveva la insurrezione in Calabria, io invitato dal deputato Faccioli andai in sua casa, dove trovai i deputati Poerio, Wallin, Iacampo, ed altri, tra i quali si discuteva del modo di aiutare il governo costituzionale e persuadere gli elettori ad andar nei collegi e nominare i deputati. Si decise di fare un manifesto, e fu dato a me l’incarico di scriverlo. Io lo scrissi, ed approvato da tutti con poche modifiche fu stampato. Questo manifesto fu creduto allora una scrittura di un retrogrado, e fu bruciato pubblicamente in provincia di Lecce come cosa scellerata. Io che lo scrissi, ora sono accusato come autore di proclami rivoluzionari. [p. 505 modifica] Gli uomini non cangiano sí presto, né io ho mutato né muterò mai sentimenti.

Intanto il Bozzelli per buona opinione che aveva di me proponeva al re di darmi il terzo del soldo in pensione ma io gli scriveva questa lettera:

«Sento il dovere di ringraziarla che ella presentando al re la mia rinunzia ha proposto che mi si dia una pensione di quaranta ducati al mese; e la prego di ringraziare in mio nome la maestá del re che generosamente ha approvata questa proposta. Ma ella mi permetta che io le dica di non potere accettare la munificenza del principe, perché io sono stato in uffizio un mese e mezzo, non ho reso alcun grande servigio, e non merito pensione. Non disprezzo un benefizio reale: ma io sono avvezzo a lavorare, ed esserne compensato: un dono mi umilia, e mi fa vile a me stesso. Se V. E. vuole che io abbia un soldo, e che io lo accetti, mi faccia lavorare come e dove le pare: ed io le posso promettere di servire esattamente ed onoratamente. La prego di far noti a sua maestá questi miei sentimenti, e di fargli leggere la dichiarazione che io scrissi quando rinunziai al mio ufficio; affinché il re vegga quale uomo io mi sono, non quel tristo che la malvagitá degli uomini ha voluto dipingere con neri colori». Non so che fece il Bozzelli dopo questa lettera: la mia rinunzia non fu ancora accettata.

Allora mi chiamò il ministro delle finanze signor Francesco Paolo Ruggiero, e mi offerí un uffizio nel suo ministero con soldo maggiore di quello che aveva. Gli risposi che io non poteva accettarlo, perché non sapeva affatto di finanza, e in tutta la vita mia non aveva studiato che letteratura. «Per un uomo d’ingegno», mi rispose l’eccellentissimo, «questa non è cosa difficile: anch’io non ne sapeva niente, ed in quindici giorni l’ho imparato e ne sono maestro». «Ma io non posso paragonarmi con voi»: gli replicai, lo salutai, e me ne andai.

Nel mese di novembre 1848 si dovevano eleggere alcuni deputati; e molti mi domandavano se io voleva essere eletto. Bella e desiderata cosa è per un cittadino rappresentare la sua nazione: ma io non aveva l’ingegno e la parola pronta, non ancora era stata accettata la mia rinunzia, non poteva essere deputato. Ma allora mi avvidi che il mio nome non vi era discaro, o miei cittadini; dappoiché voi nei collegi elettorali del 24 novembre con maggioranza assoluta di voti mi eleggeste a deputato, non [p. 506 modifica] richiedente anzi repugnante. Or difendetemi voi dall’accusa che mi dá il Procuratore generale, che scrive: «che Settembrini in novembre 1S48 aveva per mezzo di Iervolino fatto diffondere dei cartellini fra gli elettori per indurli ad eleggere deputati al Parlamento nazionale esso Settembrini, Nisco, e Turco»: dite voi, che lo sapete, chi ho pregato io? quali pratiche ho fatto? a chi ne ho solamente parlato? E poteva io parlarne all’Iervolino che è un garzone d’orefice, un miserabile, e non è neppure elettore? Ma l’avessi pur fatto: è delitto questo? Il ministero non ha mandato attorno le liste dei suoi candidati? In tutti i paesi costituzionali non si fanno le liste dei candidati? è delitto esser candidato? E se non è delitto, perché il procurator generale me ne accusa? Io sono accusato di cosa che non è delitto, come Pasquale Montella è accusato «di tenere un proclama firmato Aurelio Saliceti, tendente a cangiare il governo in repubblica». E questo preteso proclama sono le parole che il Saliceti disse in Roma quando si proclamò la Costituzione sul Campidoglio, non han che fare nulla con noi, furono stampate in tutti i giornali1. Come l’Esposito è accusato che «conservava una fascia tricolore, e Molinaro deteneva del pari un fazzoletto tricolore, emblemi di setta». E si chiamano emblemi di setta quei tre colori che per un anno e mezzo sono stati sulle bandiere napoletane. Come è accusato il Leipnecher, «che nella casa di lui rinvenivansi alcuni opuscoletti del Galanti, che han per titolo La voce della veritá e la bancograzia (sic), carte che del pari spirano principii liberalissimi». E questi opuscoletti liberalissimi furono stampati col permesso del ministro Delcarretto, lodati nel giornale uffiziale dali’Anzelmi, ed in altri giornali letterari2. Se il processo è riboccante di prove, [p. 507 modifica] come dice l’accusa, perché scegliere queste che non son prove, anzi per contrario provano brutte intenzioni?

Fui eletto deputato il 24 novembre, e finalmente il 30 il Bozzelli fece accettare la mia rinunzia; ma perché quando fui eletto non ancora avevan voluto tormi l’uffizio, io dissi che la mia elezione era nulla, rinunziai spontaneamente, e la Camera approvò la mia rinunzia. E questa sia la risposta che io fo a chi mi accusa che io brigava per essere deputato.

Disciolta la Camera, gli amici, i conoscenti, e quelli che non mi conoscevano, mi venivano attorno, m’investivan per le strade, e mi dicevano: «O Settembrini, vattene, muta cielo: tu sei odiato a morte e piú di tutti: se ti afferrano, guai a te». Io ringraziava tutti del consiglio, e rispondeva che io non doveva temere perché non mi sentiva reo di nulla, perché il governo sapeva le mie azioni e le mie temperate opinioni. E poi chi mi deve odiare, se io non ho offeso nessuno? chi può temere di me che in tutto il giorno non fo altro che studiare ed insegnare? Ma per non dare occasione a queste voci, per godere un poco di tranquillitá, e per ristorare la salute della povera moglie mia, che da quelle antiche sventure non ha avuto piú un’ora di bene, andai il 6 maggio 1849 ad abitare in un casino sulla collina di Posilipo; dove sperava di aver pace, donde non discendeva se non per le solite mie lezioni. Un dí tra gli ultimi di maggio discendendo dal casino incontrai nella strada di Chiaia il mio rispettabile amico Carlo Poerio, che da lungo tempo io non vedeva. Questi mi disse che in sua casa talvolta andava un tale Iervolino per cercargli protezione ed impiego, ma ch’era una spia salariata; che egli aveva avuto tra le mani un rapporto che costui scriveva al commissario di polizia Gennaro Cioffi nel quale parlava di esso Poerio e di me: e di me diceva ché io gli aveva data speranza di prossima rivoluzione. Io risposi non conoscere neppure di nome quest’uomo: non mi curai di nulla perché avvezzo ad udire simili spaventi, perché era sicuro della mia coscienza, era sicuro che il governo mi conosceva, e non avrebbe commesso un abuso contro di me senza un’accusa legale. Ma il 23 giugno «in linea di prevenzione e per ordine di S. E. il ministro dell’interno» il prefetto di polizia mi faceva arrestare.

Tutti questi fatti della mia vita e gli altri che dirò appresso, saranno da me provati innanzi la corte criminale con bei testimoni e con documenti. E quantunque da questi fatti si veggano chiare [p. 508 modifica] le mie opinioni, pure io voglio dire piú apertamente ed al cospetto di tutti come penso e come sento.

Nel mondo non vi sono altri che due soli partiti, gli uomini onesti, ed i birbanti. Io mi sono sforzato sempre di appartenere agli onesti, e non mi son brigato mai dei nomi, perché ho veduto molte opere nefande commesse da uomini detti o realisti, o liberali, o assolutisti, o repubblicani, o costituzionali. Io amo la libertá, la quale per me significa l’esercizio dei propri diritti senza offendere nessuno, significa giustizia severa, significa ordine, significa rispetto ed obbedienza alle leggi ed alle autoritá. Questa libertá io amo caldamente, questa è la libertá desiderata dagli uomini onesti: e se amarla è delitto, mi confesso reo, e ne accetto la pena. Per ottenere questa libertá io desidero un governo con leggi giuste, e rigorosamente osservate da tutti senza distinzione: a questo governo date il nome che volete, che poco m’importa; ma leggi e non arbitrio, leggi e non partiti. Negli anni passati non avevamo molte buone leggi, e le poche buone erano violate e calpestate dall’arbitrio; onde nascevano tanti mali, tanto scontento, tanti turbamenti politici: e si vedeva manifesto il bisogno della nazione che voleva buone leggi ed osservate. Vedendo questo bisogno il provvido principe ci diede una costituzione, la quale giunse desiderata e cara a tutti, se non a pochissimi che son nati come i serpi per strisciare ed avvelenare. Per opera di questi pochissimi quella costituzione ora è straziata e lacerata in tutti i suoi ottantanove articoli. Credete voi che questo strazio e questa lacerazione non produrrá altri mali? o che li potrete impedire come vi piace? Voglia Iddio che io sia falso profeta! Io voglio per poco parlare a voi che abborrite la costituzione, che congiurate per rovesciarla interamente: che ne vorreste cancellato anche il nome: Capite voi quello che dite e quello che fate? Credete di amare e di lodare il re, ma voi lo abborrite e lo vituperate. Infatti chi dice che io ho dato una cosa per paura, mi chiama vile, chi dice che l’ho dato a chi non la desiderava e non la pensava, mi chiama pazzo: chi mi consiglia di riprendere un dono che io ho fatto ed ho giurato di mantenere, mi consiglia di essere spergiuro. Vedete quale empietá commettete senza saperlo. Onde io grandemente mi maraviglio che il procurator generale, Filippo Angelillo, che è dotto ed egregio magistrato, sul principio dell’accusa abbia scritte queste parole: «In aprile 1848, rotto ogni freno di morale e di religione, i faziosi tendevano a slacciarsi pur da quello di un [p. 509 modifica] reggimento costituzionale, che la magnanimitá di principe clementissimo avea generosamente donato, seguendo l’impulso del suo reale animo piú che il supremo bisogno dei sudditi, alla cui immensa maggioranza tutto nuovo, non desiderato, non pensato giungeva». Queste parole calunniano la nazione, ed offendono il principe; il quale sapientemente ha voluto la costituzione, generosamente l’ha data, religiosamente l’ha giurata, e per sua gloria la manterrá. Chi dice il contrario, sí, offende il principe, ond’è ribelle e degno di pena. Io con tutti gli uomini onesti non ho mai diffidato della religione del principe; ho sempre creduto che egli ci diede uno statuto perché lo credette necessario al nostro bene, ed utile alla sua gloria; e spero fermamente che questo principe giusto e religioso avendoci data una buona legge nella costituzione, voglia farla rigidamente osservare, togliendoci da questo penoso stato d’incertezza, e punendo severissimamente tutti coloro (e me primo, se son reo) che con vari nomi infrangono la giustizia, turbano l’ordine, confondono ogni cosa. Dappoiché la vera cancrena che divora questo paese, la vera cagione che ha prodotti e produrrá tutti i nostri mali infiniti è appunto il non osservare alcuna legge. Or io domando a tutti coloro che mi odiano: «Sono onesti questi desiderii? sono giuste queste parole? Ed io sempre questo ho desiderato, sempre cosí ho parlato; eppure sono stato giudicato ingiustamente.


Note

  1. Il povero cantiniere Montella diceva che cosa era quella stampa, e che era stata riportata anche nel giornale uffiziale: ma il Campagna che lo arrestò non se ne persuase, lo credette un proclama repubblicano, e scrisse nel suo verbale di arresto: «proclama tendente a cangiare il governo in repubblica». Sia lecito all’ispettore Campagna di ignorare, o storcere i fatti; ma come scusare il pubblico accusatore che segue il giudizio di un ispettore, non legge l’interrogatorio dell’imputato, non esamina la carta? O ha errato per ignoranza, o ha voluto preoccupare la pubblica opinione.
  2. Il Procuratore generale dice ancora che il Leipnecher era per sua propria confessione capo della setta degli Unitari. Le risposte di Antonio Leipnecher alle interrogazioni ricevute sono franche, leali, onorate, dignitose: ed io l’ho lette. Non dico questo per difendere il Leipnecher, che non ha bisogno della mia difesa, ma per mostrare con quanta coscienza è fatta l’accusa.