Quel che vidi e quel che intesi/Capitolo XVIII

Capitolo XVIII
Il processo per l'assassinio di Pellegrino Rossi

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Capitolo XVIII
Il processo per l'assassinio di Pellegrino Rossi
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XVIII.

IL PROCESSO PER L'ASSASSINIO

DI PELLEGRINO ROSSI.


Grandoni venne a stare con me. Egli aveva una sua governante di Tagliacozzo, la quale provvedeva alle faccende di casa per tutti e due.

Una sera venne a casa nostra l’avvocato Del Grande e con molto calore raccomandò a Grandoni di andarsene da Roma, di mettersi in salvo, poichè la polizia lo riteneva autore del complotto per la soppressione di Pellegrino Rossi.

Il povero diavolo più non si rammentava che più volte egli, di questo, si era vantato in pubblico. Sapendosi del tutto innocente, egli non volle fuggire. Io non mancai di aggiungere, a quelle dell’avvocato Del Grande, le mie più ripetute e calorose raccomandazioni e preghiere perchè si squagliasse. Non ebbero alcuno effetto sulla sua funesta testardaggine. Niente valse; nemmeno potè smuovere la funesta sua ostinazione il dichiarargli netto che, quanto a me, io me la sarei svignata subito a Tivoli, non intendendo affatto di lasciarmi cogliere in trappola assieme a lui. Ma il disgraziato resistette a tutto e rimase. Io me la battei senza perdere un minuto.

Con grande apparato, nella stessa notte, poliziotti e gendarmi in gran numero furono a casa nostra per arrestarlo. Dopo compiuta una molto minuziosa perquisizione per tutta la casa, l’infelice Grandoni venne portato via e rinchiuso in rigorosissima carcere.

Si disse che v’era mandato d’arresto anche contro di me. Ma io non avevo alcuno che me la tirasse come aveva [p. 88 modifica]Grandoni. La mia esistenza in Roma era quasi ignorata. Facevo la vita dell’artista ed assai spesso mi trovavo con artisti forestieri. Il più del mio tempo lo trascorrevo a lavorare in campagna sul vero; mai apparivo nei pubblici passeggi, nè mai mi si vedeva nei teatri e nei caffè. Tutti mi credevano tuttora in famiglia a San Francesco a Ripa.

Ma qualcosa contro di me, in quei giorni, la polizia deve aver macchinato, perchè allora il cardinale Antonelli ebbe a dire a persona intrinseca della mia famiglia:

— Guardate un po’ a che siamo arrivati.... I giudici del processo Grandoni han domandato l’arresto del fratello di Antonio Costa!...

Credo, infatti, fosse mio fratello maggiore Antonio, — il quale era una delle personalità più importanti di Roma ed al governo papale grata quanto utile persona — ad agire presso lo stesso cardinale Segretario di Stato per evitare il mio arresto. Se a me, in tanti rivolgimenti e fra tante persecuzioni contro tutti coloro che aveano sostenuta la Repubblica, non capitò male, per non poco lo dovetti alla influenza della mia famiglia ed alla considerazione in cui essa era tenuta. I miei numerosi fratelli erano in ogni campo attivissimi, aveano mano e primeggiavano in tutte le maggiori imprese ed iniziative. In Roma e nello Stato Romano erano, per tutto questo, assai potenti.


Ma ciò, naturalmente, non poteva fare che io, per ben due anni, non venissi del continuo esaminato sul conto dell’assassinio del ministro Rossi.

Riguardo a Grandoni io dissi la verità quale ho narrato.

Durante l’istruzione del processo mi capitò uno strano caso. Quel tal Mazza che nel collegio di Montefiascone mi avea dato quelle tali pedate, mai da me dimenticate e ch’io avevo sempre, da allora, guardato di traverso, me lo ritrovai nel processo, accanto al giudice istruttore. Figuratevi come io rimanessi a vederlo a quel posto. Quell’anima trista aveva sulle [p. I 20 modifica]Nino Costa. Quercie secche (studio dal vero) [p. I 21 modifica]Nino Costa. Albucci (studio dal vero) [p. 89 modifica]labbra, quando io comparvi, un sorrisetto sarcastico di chi sentendosi al sicuro se la gode dei guai altrui. Io ripensai alla nostra inimicizia di collegio, alla cattiveria del mio antico compagno. Ciò mi fu utile. E mi ricordai, pure, di aver più volte inteso ripetere dalla saggia mia madre:

— «Figli miei, farla da imbecilli specie quando imbecilli non si è, e si è sinceri, è assai difficile. Ma farsi credere imbecille è, nella vita, spesso assai assai utile».

Così mi sedetti dinanzi al giudice ben determinato a farla da imbecille. Mi misi il cappello tra le gambe e cominciai a girarlo con ambo le mani, quasi che ciò mi dovesse aiutare a trovar le parole; e, poi, sommessamente dissi al giudice:

— Mi dica lei signor giudice: cosa ho io da rispondere?

Ed il giudice Pasqualini a me.

— È il Grandoni che vogliamo, non capisce?

Io risposi:

— Per ben due volte il Grandoni è stato in procinto di essere ucciso da quegli stessi che hanno pugnalato il Rossi. E se io non ero a trascinarlo fuori dalla Cancelleria, dicendolo impazzito, sarebbe caduto morto accanto al Rossi.

Al termine della mia molto lunga deposizione questa non mi venne riletta. Ed a me che, con la timidezza del collegiale che vuol rivedere ancora il proprio compito, domandava di conoscere quello che si era messo in scritto, venne seccamente risposto:

— Non è necessario di rileggere nulla. Non le abbiamo fatto prestare giuramento. Così non le facciamo dar lettura di verbali, nè firmarli; perchè in questo processo è imputato anche lei. Anzi lei si tenga pronto ad ogni altra chiamata.

Mi parve di essere già bello e spacciato. E vidi bene che la mia innocenza e l’orrore che io avevo sentito per quell’assassinio non mi avrebbero affatto salvato, quando ci fosser stati di mezzo odii personali, vendette, invidie, ambizioni di giudici servili e senza coscienza.

Credo dover la salvezza, in quella tremenda congiuntura della mia vita, per molto anche alla mia cara arte. L’amore [p. 90 modifica]della quale mi tenne lontano dal mondo dei caffè, delle farmacie, delle vanità esteriori; e, sopratutto, perchè mi tolse, dominandomi tutto, di far mai qualsivoglia cosa per ambizione o per altro interesse mio personale. Chiamato più volte per chiarimenti su dettagli, da un anno mi avean lasciato in pace, quando venni richiamato per un altro dei tremendi esami.

Io esattamente riassunsi quanto aveva deposto l’anno avanti: non senza accusarmi di molta smemorataggine. Fui, però, assai guardingo. Non c’era da scherzare; io ero capitato tra male gatte.

Grandoni, dopo avere disperatamente con ogni ripiego lottato per salvar la sua testa, condannato a morte, non volle subire l’onta della ghigliottina.

Nella notte precedente il giorno stabilito per la esecuzione, egli si strozzò con un fazzoletto legato all’inferriata della carcere.


David Silvagni ha scritto intorno a questo celebre processo. In molte cose egli si mostra esattamente informato. Quanto alle parole che io pronunciai al momento dell’assassinio, credo egli debba avere desunto dai verbali istruttorii di quei giudici i quali volevano ad ogni modo la testa di Grandoni.

Silvagni, infatti, riferisce che io dicessi rivolgendomi a Grandoni:

— «È un’infamia sbarazzarsi di un avversario politico con un assassinio».

Ma io non ebbi davvero tempo per poter fare, in quell’attimo fatale, il lungo discorso. Men che mai, poi, io potevo rivolgerlo a Grandoni ch’io ben sapevo non essere affatto implicato e strillava in quel momento stesso come una donnicciuola.

Prima che fosse vibrato il colpo fatale, quando vidi che si serravano intorno al Rossi e compresi quel che era per accadere, gridai soltanto:

— L’assassinio è un’infamia!...