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della quale mi tenne lontano dal mondo dei caffè, delle farmacie, delle vanità esteriori; e, sopratutto, perchè mi tolse, dominandomi tutto, di far mai qualsivoglia cosa per ambizione o per altro interesse mio personale. Chiamato più volte per chiarimenti su dettagli, da un anno mi avean lasciato in pace, quando venni richiamato per un altro dei tremendi esami.
Io esattamente riassunsi quanto aveva deposto l’anno avanti: non senza accusarmi di molta smemorataggine. Fui, però, assai guardingo. Non c’era da scherzare; io ero capitato tra male gatte.
Grandoni, dopo avere disperatamente con ogni ripiego lottato per salvar la sua testa, condannato a morte, non volle subire l’onta della ghigliottina.
Nella notte precedente il giorno stabilito per la esecuzione, egli si strozzò con un fazzoletto legato all’inferriata della carcere.
David Silvagni ha scritto intorno a questo celebre processo. In molte cose egli si mostra esattamente informato. Quanto alle parole che io pronunciai al momento dell’assassinio, credo egli debba avere desunto dai verbali istruttorii di quei giudici i quali volevano ad ogni modo la testa di Grandoni.
Silvagni, infatti, riferisce che io dicessi rivolgendomi a Grandoni:
— «È un’infamia sbarazzarsi di un avversario politico con un assassinio».
Ma io non ebbi davvero tempo per poter fare, in quell’attimo fatale, il lungo discorso. Men che mai, poi, io potevo rivolgerlo a Grandoni ch’io ben sapevo non essere affatto implicato e strillava in quel momento stesso come una donnicciuola.
Prima che fosse vibrato il colpo fatale, quando vidi che si serravano intorno al Rossi e compresi quel che era per accadere, gridai soltanto:
— L’assassinio è un’infamia!...