Quattro canti militari dell'antica Grecia/Tirteo
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fioriva tirteo 684 anni avanti l’era volgare. È incerto qual città gli desse i natali. Chi dice atene, chi lacedemone o mileto. Noi lo troviamo involuto nelle guerre di sparta. Sono gli spartani, pe’ quali creava le sue canzoni di guerra, cui que’ petti fortissimi s’infiammavano cantandole nell’andare a battaglia. — Così la poesia ed il canto accrescevano il senso della vita e cangiavano in orgoglio nazionale il santo amore di patria. —
Indice
- I : È bello, è divino per l'uomo onorato
- II : O magnanimi figli d'Alcide
- III : Altri vanti il piè veloce
A Sparta «dai venti ai sessant’anni, ogni uomo libero era censito per le armi. Loro nerbo era la fanteria: nella cavalleria s’arruolavano i meno prodi: non avevano mura alla loro città, non macchine; e Archilamo vedendone una — Da qui innanzi, sclamò, è finita pel valore. — Che avrebbe detto della strategia de’ nostri tempi? Ordinò Licurgo non facessero a lungo guerra allo stesso nemico, acciocchè questo non impalasse i loro artifizii. Dividevansi in cinque reggimenti (more) secondo il numero delle Tribù; ciascuno di quattro battaglioni (lochi) composti di otto pentecosie o sedici enomatie cioè compagnie. Armi la picca, la lancia, spada corta, scudo grande fregiato colle lettere iniziali della patria e colle proprie divise. Uno vi dipinse una mosca grande al naturale, dicendo; Andrò si presso al nemico ch’ei la vegga.»
«Per la battaglia vestivansi di rosso, pettinavansi e coronavansi di fronde.... Giunti al confine, sacrificavano a Giove e a Pallade; toglievano dai patrii altari un tizzone pel sacrificio che il re facea d’una capra il giorno della mischia; poi esso intonava sull’aria di Castore una canzone, che tutti i soldati ripetevano in coro. Senza chiedere quanti fossero i nemici, ma dove, marciavano a suon di flauto; nel che e nell’uso di vestire uniforme furono i primi. Il re stava in mezzo a cento, obbligati a difenderne la vita. Non inseguivano il vinto nemico, non lo spogliavano, non ne sospendevano ai tempj i trofei. Chi fosse fuggito era peggio che morto: dovea stare un dato tempo ritto in piedi in vista dell’esercito: poi non comparire in piazza, non aspirare a cariche, non menar moglie; alzarsi perfino al venire d’un fanciullo; se usasse olio od unguenti era bastonato.»
Alcuno ebbe a dire: qual meraviglia se affrontino intrepidi la morte coloro, per cui si pochi allettamenti ha la vita? Di fatto la città loro era sempre un campo, ed ogni cosa vedevasi ordinata a spegnere il sentimento della personalità, e identificare l’individuo colla patria. Da ciò quel rinnegamento d’ogni ambizione, per cui Pedarete, non trovandosi accettato nel maggior Consiglio, si congratulò che Sparta avesse trecento cittadini migliori di lui. — Atene a’ suoi migliori promettea monumenti, Roma le corone, Odìno le belle Valkerie che nei lucenti palazzi aspettano i prodi, Maometto gli amplessi delle Uri: Sparta nulla. Trecento cadono alle Termopile; essa vi colloca una pietra scolpendovi: HANNO FATTO IL LORO DOVERE» —
Tra la gente medesima «i divertimenti stessi non erano che di forza. Negli spettacoli i vecchi cantavano:
Noi pochi i grandi eserciti |
Allora con allegro tuono soggiungevano i giovani:
Chi di valor ci avanza? |
E voci puerili ripigliavano:
Lascia che varchino |
E ponevano gli Spartani cura grande in tramandare alla memoria i versi di Omero, di Terpandro e di Tirteo, e li cantavano andando a battaglia. Così la poesia e la musica insieme congiunte erano la fiamma alla quale ardeva e sfolgorava di gloria il valor cittadino. (Vedi Cantù Storia Univers. Tom. I.)