Prose della volgar lingua/Libro terzo/VII

Terzo libro – capitolo VII

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E questo che fin qui s’è detto, può, come io aviso, essere a bastanza detto di que’ nomi, i quali, col verbo posti, in piè soli star possono e reggonsi da sé senza altro. Di quelli appresso, che con questi si pongono, né stato hanno altramente, dire si può che le voci del maschio due fini solamente hanno: la O e la E nel numero del meno, Alto Puro Dolce Lieve, e la I in quello del piú, Alti Lievi; e quelle della femina due altri: la A e la medesima E, che ad amendue questi generi è comune, Alta Pura Dolce Lieve, nel numero del meno, e la E e la I in quello del piú, Pure Lievi; levandone la voce Pari, che cosí in ciascun genere e in ciascun caso e in ciascun numero si disse, come che Pare si sia alcuna volta detto da’ poeti nel numero del meno; e quelle ancora con le quali si numera, i Due, che Duo si disse piú spesso e piú leggiadramente nel verso, e le Due, e Tre e Sei e Dieci, che Diece piú anticamente si disse, e Trenta e Cento e gli altri, i quali non si torcono; come che Dante torcesse la voce Tre, e Trei ne facesse nel suo Inferno. Et è sovente che nelle voci del maschio si lascia la O e la E nel numero del meno, in que’ nomi che la R v’hanno per loro ultima consonante, Pensier Primier e Amar e Dur, che una volta disse il Petrarca, Miglior Piggior; o in quelli che per consonante loro ultima v’hanno la N, Van Stran Pien Buon, i quali tutti eziandio nel numero del piú si son detti. È il vero, che Fier in vece di Fiero, e Leggier in vece di Leggieri, e Signor in vece di Signori, o pure ancora Peregrin in vece di Peregrini, che disse Dante:

Ma noi sem peregrin come voi sete,

non si direbbon cosí spesso nelle prose come nel verso. Non si fa cosí nelle voci della femina, che la A vi si lasci medesimamente, perciò che ella non vi si lascia giamai. Lasciavisi alle volte la E, in quelle che v’hanno la L, e dicesi Debil vista, Sottil fiamma, nel numero del meno; e la I alcune poche volte in quello del piú: il Petrarca,

Con voce allor di sí mirabil tempre.

Et è poi, che si lascia in quello del piú eziandio la L, nelle voci del maschio e della femina; sí come la lasciò il medesimo Petrarca:

Qua’ figli mai, qua’ donne,
furon materia a sí giusto disdegno?

e ancora,

Da ta’ due luci è l’intelletto offeso;

e il Boccaccio, che disse:

Con le tue armi e co’ crude’ roncigli

e ancora,

Ne’ padri e ne’ figliuo’,

in vece di dire Crudeli e Figliuoli. Né pure la medesima O, di cui sopra si disse, ma ancora tutta intera la sillaba si lascia in questa voce, Santo, maschilemente detta, e in quest’altre, Prode Grande; e piú ancora che la intera sillaba in queste, Belli e Quelli, vi si lascia, e in Cavalli la lasciò il Boccaccio, che disse Cava’ nella sua Teseide. Come che la voce Grande, troncamente detta, non piú al maschio si dà che alla femina. Nulla, allo ’ncontro, si lascia di quelle voci, che con piú consonanti empiono la loro ultima sillaba, Destro Silvestro Ferrigno Sanguigno, e somiglianti. Mutasi alcuna volta della voce Grave la vocal primiera, e fassene Greve nel verso.