Alle cui parole il Magnifico senza dimora cosí rispose: - Egli vi sarà bene, messer Ercole, da me e da messer Carlo conceduto e da messer Federigo ancora, i quali tutti in questa contesa parimente contra voi sentiamo, che ne’ primi buoni tempi da’ romani uomini fosse la greca lingua in piú dignità avuta che la latina, e al presente alla latina altresí piú onore si dia che alla volgare; il che può avenire, sí perché naturalmente maggiore onore e riverenza pare che si debba per noi alle antiche cose portare che alle nuove, e sí ancora perciò che e allora la greca lingua piú degni e riverendi scrittori avea e in maggior numero, che non avea la latina, e ora la latina medesimamente molti piú avere se ne vede di gran lunga e piú onorati, che non ha la volgare. Ma non per tutto ciò vi si concederà, che sempre nella piú degna lingua si debba scrivere piú tosto che nella meno. Perciò che se a questa regola dovessero gli antichi uomini considerazione e risguardo avere avuto, né i Romani avrebbono giamai scritto nella latina favella, ma nella greca; né i Greci altresí si sarebbono al comporre nella loro cosí bella e cosí rotonda lingua dati, ma in quella de’ loro maestri Fenici; e questi in quella d’Egitto, o in alcun’altra; e a questo modo, di gente in gente a quella favella ritornando nella quale primieramente le carte e gl’inchiostri si trovarono, bisognerà dire che male ha fatto qualunque popolo e qualunque nazione scrivere ha voluto in altra maniera, e male sia per fare qualunque altramente scriverà; e saremo a credere constretti che di tante e cosí differenti guise e tra sé diverse e lontane di parlari, quante sono per adietro state e saranno per innanzi fra tutti gli uomini, quella una forma, quell’un modo solo di lingua, con la quale primieramente sono state tessute le scritture, sia nel mondo da lodare e da usare, e non altra; il che è troppo piú fuori del convenevole detto che mestier faccia che se ne questioni. È dunque bene, messer Ercole, confessare che non le piú degne e piú onorate favelle siano da usare tra gli uomini nello scrivere, ma le proprie loro, quando sono di qualità che ricever possano, quando che sia, ancora esse dignità e grandezza; sí come era la latina ne’ buoni tempi, alla quale Cicerone, perciò che tutta quella riputazione non l’era ancor data, che ad esso parea che le si convenisse dare, sentendola capevole a tanta riceverne, quanta ella dapoi ha per sua e per altrui opera ricevuto, s’ingegna accrescere autorità in molte delle sue composizioni lodandola, e consigliando i romani uomini e invitandogli allo scrivere romanamente e a fare abondevole e ricca la loro lingua piú che l’altrui.
Questo medesimo della nostra volgare messer Cino e Dante e il Petrarca e il Boccaccio e degli altri di lontano prevedendo, e con essa molte cose e nel verso e nella prosa componendo, le hanno tanta autorità acquistata e dignità, quanta ad essi è bastato per divenire famosi e illustri, non quanta per aventura si può in sommo allei dare e accrescere scrivendo. Perché non solamente senza pietà e crudeli doveremmo essere dalle genti riputati, dallei nelle nostre memorie partendoci e ad altre lingue passando, quasi come se noi dal sostentamento della nostra madre ci ritraessimo per nutrire una donna lontana, ma ancora di poco giudicio; con ciò sia cosa che, perciò che questa lingua non si vede ancora essere molto ricca e ripiena di scrittori, chiunque ora volgarmente scriverà, potrà sperare di meritar buona parte di quella grazia che a’ primi ritrovatori si dà delle belle e laudevoli cose, là dove, scrivendo latinamente, allui si potrà dire quello che a’ Romani si solea dire, i quali allo scriver greco si davano, che essi si faticavano di portare alberi alla selva. Che dove dite, messer Ercole, che la nostra volgar lingua era eziandio lingua a’ Romani negli antichi tempi, io stimo che voi ci tentiate; ché non posso credere che voi il vi crediate, né niuno altresí credo io essere che il si creda -.