- Io son contento di concedervi, messer Carlo e Giuliano, - disse lo Strozza - che la volgare favella piú a noi vicina sia o ancora piú naturale e propria, che la latina non si vede essere, in quella guisa medesima che a’ Romani era la latina piú vicina e piú naturale della greca; pure che mi concediate ancor voi, quello che negare per niun modo non mi si può, che sí come a quel tempo e in que’ dotti secoli era ne’ romani uomini di molta maggior dignità e stima la greca lingua che la latina, cosí tra noi oggi molto piú in prezzo sia e in onore e riverenza la latina avuta che la volgare. Il che se mi si conciede, come si potrà dire che ad alcun popolo, avente due lingue, l’una piú degna dell’altra e piú onorata, egli non si convenga vie piú lo scrivere nella piú lodata che nella meno? Oltra che se è vero quello che io ho udito dire alcuna volta, che la nostra volgar favella stata sia eziandio favella medesimamente volgare a’ Romani; con la quale tra essi popolarescamente si sia ragionato come ora si ragiona tra noi, tuttavolta senza passar con lei nello scrivere, al quale noi piú arditi e meno consigliati passiamo, noi non solamente la meno pregiata favella e men degna da’ Romani riputata, ma ancora la rifiutata e del tutto per vile scacciata dalle loro scritture, aremmo a quella preposta, a cui essi tutto il grido e tutto l’onore dato hanno, la volgar lingua alla latina ne’ nostri componimenti preponendo. Laonde e di molta presonzione potremmo essere dannati, poscia che noi nelle lettere quello che i romani uomini hanno schifato, seguitiamo, e di poca considerazione, in quanto, potendo noi a bastanza col loro essempio della latina lingua contentarci, caricare ci siamo voluti di soverchio peso, disonorata fatica e biasimevole procacciando -.