Capitolo II

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I III
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II.

Eva ad un’amica.

Cara Annita.

Ti mando questa mia, con uno dei soliti romanzi, del solito gabinetto di lettura Meiners e figlio.

Non so se abbiamo diritto di leggere in due, pagando un solo abbonamento. Alla prima confessione esporrò il caso al confessore. [p. 2 modifica] Il guaio è che i confessori sono inesorabili sull’argomento dei romanzi, e specialmente di questi dello Zola; sarebbe capace d’impormi, a titolo di penitenza, d’incendiare il gabinetto di lettura coi libri, i signori Meiners e figlio, e tutto quanto.

Preferisco pagare il doppio abbonamento.

Questa volta però sono certa che la mia lettera ti riuscirà più interessante del romanzo; sembra il principio d'un romanzo anch'essa; ma d’un romanzo vero. Peccato che questo principio sia destinato a non aver seguito. Peccato per te che leggi, però. Quanto a me, non vorrei che continuasse. Dio me ne scampi!

È la cosa più strana che mi sia mai accaduta, e la più umiliante che si possa immaginare.

Un vicino di casa, un non so chi, un nessuno, che abita, pare, di contro al mio stanzino da bagno, ha avuto il toupè di gettarmi sul balcone una lettera, in cui mi avvertiva di chiudere le imposte, perchè... Lo capisci il perchè.

Ha osato supporre ch'io potrei non chiudere abbastanza le imposte quando non sono abbastanza vestita. È un oltraggio sanguinoso; è quanto dirmi: «Badi, signóra, che lei non ha pudore; io che sono uomo, sento di doverle dare una lezione.

Del resto quel signore si è adombrato a torto; puoi ben figurarti se io chiuda i vetri quando mi spoglio. È lui che mette della malizia dove non ce n’è. M’avrà veduta coperta fin al mento; ma è bastato ch’io fossi nel camerino da bagno per dargli delle idee.... stravaganti.

Ora, ben inteso, ho chiuso vetri, gelosie ed imposte a perpetuità. Avrei voluto murare la finestra del camerino addirittura. [p. 3 modifica]

Però ogni giorno ne! pomeriggio mi metto come prima a ricamare o a leggere sul balcone del salotto accanto al gabinetto del bagno, e per conseguenza contro la finestra del suo abbaino. (Il mio moralista abita in un abbaino). Il primo impulso dopo quel biglietto umiliante, era stato di nascondermi, di non lasciarmi più vedere. Ma avrebbe creduto ch’io mi sentissi mortificata, e sarebbe state quanto giustificare le sue supposizioni. M’è sembrato più decoroso sedere sul mio balcone, come ho fatto sempre, senza curarmi affatto di lui.

È un artista di musica. Ma non uno dei soliti strimpellatori, nè uno di quegli esecutori furibondi ed invincibili, che sono lo spauracchio di chiunque possiede un pianoforte, e la delizia dei negozianti di medesimi.

Suona come Bulow, come Ketten; no, meglio ancora. Suona come Verdi compone. Il pianoforte parla sotto le sue difa; ogni nota ha un’espressione evidente. Quando suona una romanza, non ho bisogno di saperne le parole; la musica stessa le dice; non è possibile ingannarsi sui sentimenti, sulle situazioni che esprime. Non si perderebbe a scrivere quei trilli, quei gorgheggi, quell’insulsa ginnastica della voce che i maestri d’una volta cacciavano dappertutto e che non significa assolutamente nulla. È eminentemente drammatico.

Giorni sono sonava un valzer inebriante. Mi faceva la stessa impressione che ho provata leggendo l’Atala di Chateaubriand. Non credo che si sia scritto mai nulla di più profondamente appassionato; è una lettura che esalta, che dà la febbre. Si vorrebbe non avere più nè marito, nè figli, nè casa, nè tetto, [p. 4 modifica] per vagare in quella vastità di deserto, sotto quegli ardori di cielo, ed essere amate a quel modo, ed inebriarsi di quel grande sogno e di quella grande disperazione.

Quel valzer era uno sfogo dell’anima, un grido d’amore irrompente come L’ Alala. Io mi sono commossa, ne ho pianto, l’ho sognato da addormentata e da sveglia, ne ho avuta la febbre. Persino i miei romanzi, che mi fanno piangere a calde lagrime, che mi tengono afflitta qualche volta una settimana intera per qualche catastrofe improbabile, avevano perduto ogni attrattiva; erano tutti freddi al confronto di quella tempesta di valzer. Allora non sapevo ancora chi sonasse.

Quando non ne potei più, ricorsi al solito mezzucci della cameriera e le domandai chi fosse il nuovo vicino che sonava tanto.

— E tanto bene, mi rispose. Se non fosse stata la mia cameriera le sarei saltata al collo per ringraziarla di quella parola, che giustificava il mio entusiasmo. Quando l’arte è di quella buona, tutti possono apprezzarla!

Però la voglia di baciare la cameriera mi passò subito quando mi disse che non sapeva nulla di quel vicino. Una cameriera che non sa gli interessi dei vicini di casa è un personaggio non riuscito, una cosa che non ottiene il suo scopo, come un romanzo che non diverte.

— Domanda un po’ chi è, le dissi coll’aria più indifferente che mi fu possibile di assumere. E lei domandò, ed il giorno dopo era informata come un questurino.

Il suonatore era un «maestro di musica» alto, [p. 5 modifica] bruno, coll’aria un po’ morto di fame. Secondo il modo di vedere della Gigia, chiunque non ha le guance paffute come lei, ha l’aria morto di fame. La stessa espressione in senso figurato le serve per dire: scarso a quattrini. In questo caso la frase era applicabile nei due sensi.

Età, dai ventidue ai venticinque anni. Nome: Augusto Cato. Domicilio: la soffitta di contro al mio gabinetto da bagno.

Era il quacquero dalla lettera anonima.

Se tutto questo non t’ha interessata come un romanzo, forse t’interesserà di sapere che mio marito è a Genova per affari; che la Marichita è in campagna con mia sorella da una settimana; che io mangio poco perchè a pranzar sola perdo l’appetito; che mi struggo di noia e cerco di combatterla leggendo uno dopo l’altro tutti i libri più sentimentali e più sdruciti del gabinetto di lettura. Per ogn’uno che mando a te, ne leggo dieci con accompagnamento di lagrime, di ansietà, di fantasticaggini, che mi fanno sembrare la vita uggiosa... ma uggiosa come la pioggia. Non vedo l’ora che torni la Marichita a farmi un po’ di capricci intorno per distrarmi.

Quando verrai a Milano fisseremo subito il palco al Manzoni. Almeno quando si va al teatro si vive un poco di poesia nella sera, e questo fa sopportare la prosa della giornata. Ma sbrigati, perchè se lasci passare la primavera, addio teatro.

Tua Eva.