Poesie varie (Maffei)/I. Genetliaco per la nascita del Principe di Piemonte

I. Genetliaco per la nascita del Principe di Piemonte

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I. Genetliaco per la nascita del Principe di Piemonte
Poesie varie II. Per la venuta a Roma de la regina di Polonia nel 1699

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I

Genetliaco per la nascita del Principe di Piemonte

[1699]

1.

     Di lá dove salir non lice altrui,
vegli’io che vidi cose a tutti ignote;
come non so, ma so ch’io vidi e fui.
     O menti voi de le superne rote,
spirate a! dir che, se ben Palma pensa
vederle ancor, dirle per sé non puote.
     In region di tutto ’I lume accensa
ch’esce del cielo e dove sotto il piede
gira la mole incontra agli astri immensa
     c’era, e agli occhi miei negando fede,
pien di novo stupor chieder volea,
come suol far chi non intende e vede.
     Ma vèr cui mi volgessi io non sapea;
quando ripien di lui che si l’accende
campion celeste in suo splendor scendea.
     Qual s’occhio avvezzo lá dove non splende
giugne dove ha possa il sol, pria non discerne,
ma in dimorarvi il suo poter riprende,

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     tal di quel volto al suo apparir vederne
nulla io potei, ma a poco a poco o quali
uscian dai raggi le sembianze eterne!
     Mirommi e: — Qui (diss’egli) han gl’immortali
spirti lor sede, a cui chi può commise
in difesa de’ regni oprar gli strali;
     che le si varie genti in belle guise,
sovra tutti partendo eguale il ciglio,
giusta il numer di questi egli divise.
     Italia mia, non paventar periglio:
io quegli son cui perché vegli elesse
a tua difesa l’immortai consiglio.
     Io, cui l’alto voler vil tale impresse
grazia che splendo in piú sublime giro,
a canto a quel che l’empio ardir represse,
     fuor d’ogn’uso mortale or te qui miro;
t’erse il tuo genio si pel cor sincero
e per l’innato di saper desiro.
     Insisti pur ne l’erta via del vero,
ma pria quel che per te pur or s’è ordito,
nuovo laccio spezzar ti fia mestiero. —
     Ei tacque, e me fuori di me rapito
meraviglia opprimea; ma tal conforto
mi corse al cor che a dir mi fece ardito:
     — O di nostre procelle ancora e porto,
raggio del sommo sol, chi guai maggiori
teme a l’Italia ancor te non ha scorto.
     Ma quando fia che sua virtú ristori
la sempre afflitta donna, e che per lei
escati di mano al sole anni migliori?
     Mirala in atto onde adirar ten dèi,
piange sui ceppi, qual reo che ’n oscura
prigion di peggio Ita tema; ella è colei
     che tanto mondo oppresse, or nobil cura
piú non la punge ed implorando pace
altro non brama che servir sicura.

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     Ogni buon raggio di suprema face
sdegna illustrar per noi la via primiera
e infiammar l’alme di valor verace. —
     Fra questi detti per l’eccelsa sfera
vivi lumi veder piú volte fèrsi
qual di fronte dimessa e qual d’altera.
     Ma coni’ io tacqui, ei ripigliò: — Perversi
li due secoli or corsi io ben mirai
lasciar gli alti sentier di sangue aspersi.
     Tutto in prima previdi, e tu non sai
quanto, allora che mosse il fatai Carlo,
con l’angelo de’ Franchi io qui pugnai.
     Ma vostre colpe al fin valsero a trarlo
su vostri campi ed in gran parte quelle
di lui che men d’ogn’altro dovea farlo.
     Quante da indi in poi guerre novelle
’Alpi atterrite ogn’or portan sul dorso!
Ogni riparo a tanta rabbia è imbelle.
     Ma or volgonsi gli astri a miglior córso,
né tu dèi dir che ad ogni cor sia tolta
quella virtú che ’l tempo ornò giá corso.
     O mente umana d’error cieco involta!
Quantunque il ben si veggia innanzi, altrove
solo in quel che giá fu pur sempre è volta.
     Mira colá, donde bambino muove
il re de’ fiumi, e di’ s’ivi ti sembra
ch’uom deggia invidiar le antiche prove.
     Vedi l’alto signor? Non ti rimembra
come il gran petto al fier torrente oppose
con quel valor che sol sé stesso assembra?
     Ed oh. seguendo i suoi pensier, quai cose
egli facea! Ma non ben fermo io vidi
dii negli alti desir seco s’espose.
     Pur vinse al fine, e al fin con lunghi stridi
lunge spiegò l’augel pugnace il volo,
gli occhi in van rivolgendo ai duo grandi nidi.

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     Anzi fra tanti armati regni ei solo,
seco fortuna per lo crin traendo,
segnò d’orme di gloria il franco suolo.
     E gran parte di lei ch’io qui difendo,
sappi che un di per lui serva non fia,
onde i torbidi giorni io lieto attendo. —
     Mentr’io del prence alato i detti udia,
qual uom cui tema e riverenza affrena
che ascolta e tace, benché dir vorria,
     la voce spinta i’ riteneva a pena;
e al fin proruppi: — Ahi che l’Ausonia altronde
non ha piú grave, aspra cagion di pena!
     Tanto valor ch’ogni pensier confonde
che giova, se con lui mancar si scorge?
che giova mai, se ’n altri noi trasfonde?
     Forse il pianeta che gli eroi ne porge,
tanto di sua virtude in lui consunse
che disperando ad altra opra non sorge?
     Quei che parti si ratto e tardo giunse,
qual chi bramato don ne mostra e toglie,
quanti sospiri al vecchio duolo aggiunse? —
     Ma ’l d ivin nunzio allor — Quel che s’accoglie
in te dolor, se tu mi siegui, io penso
che pria d’uscir da queste eccelse soglie
     oppresso fia per man di gaudio immenso. —
Ei precedette ed io Forme seguiva
piú lieto in vista e piú nel core accenso,
     ch’ogni pensier la dolce speme avviva.

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2.

     O mortali desir, voi che per queste
basse contrade ognor l’ali movete,
deh se quell’alte vie veder poteste!
     Per esse oltra ’l pensar serene e liete
io movea ’l piede, rivolgendo meco
quai fóran queste gioie ancor segrete.
     Si volse il duce eterno e disse: — Io teco
si lento vegno, perché l’occhio appaghi
di cose che non son nel mondo cieco.
     Quei che miri talor spiriti vaghi
altre genti hanno in cura ed a me opporsi
sogliono spesso e di pugnar son vaghi. —
     Nel primo dubbio allor di nuovo i’ córsi,
onde richiesi lui: — Come dir puoi
che accade in queste piagge a pugna esporsi?
     Suonano questi nomi anco fra voi?
Ed ha si forti la discordia penne
che sospinge oltra il sole i voli suoi? —
     Ed egli a me: — Non leggesti qual venne
guerra nel ciel, quando su l’empio Eufrate
la dolente Giudea tanto sostenne?
     Contra ’l suo difensor che libertate
gridava innanzi al soglio eterno, uscio
il custode de’ Persi e per le usate
     strade cangiar albergo al sol vid’io,
pria che spiegasse il lieto annunzio l’ale
del buon servo a quetar l’alto desio.
     Molti entraro in arringo, e ardore eguale
sovente avvien che ’l nostro coro accenda.
Quanto ne devi mai, turba mortale!

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     Ma giá non perde amor, perdi’ei contenda;
contrasto è si, ma non discorde voglia;
ed odi, acciocch’error piú non ti prenda:
     Quei che di sé nel saziare invoglia,
vuol che nel tempo o fuor d’esso alcun frutto
ciascun, qual sia, di sua virtú raccoglia.
     Quindi talor sul fedel suol distrutto
scorgi l’Asia portar i giorni amari
e le timide vie coprir di lutto.
     Ma si come lá giú ne’ regni vari,
perché l’un sia felice o l’altro oppresso,
sorgono i inerti lor fra sé contrari:
     a noi saper quel che per sempre impresso
sta ne la somma luce, ordin secreto,
senza cercarlo in lei non è concesso.
     Però ciascuno le bell’opre lieto
de’ suoi dispiega e gli altrui falli, e allora
sorge chiedendo l’immortai decreto.
     Questo pugnar che qui ferve talora
non disgiunge i voler, se ognun consente
che ’l consiglio divin s’adempia ognora. —
     Qual peregrin, che la sua scorta sente
meraviglie narrar, tutt’altro oblia
e gran cose trascorre e non pon mente:
     io lui così senza guardar seguia
l’alte bellezze di che ’l Cielo è adorno,
cotanto inteso al dolce dir meli giá.
     Quando mi scossi, a me rotar d’intorno
vidi le stelle il doppio opposto moto
e piú basse opprimea l’erranti il giorno.
     In lor pascea sue brame il guardo immoto,
ripensando al valor che le conduce,
nè discernea ’l frapposto spazio voto;
     ché l’aer puro di vapor la luce
non imbeve, né i rai da sé ridette,
onde moto non ha. né a noi riluce.

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     Quand’ecco ambedue noi nel seno ammette
fiamma del ciel che piú da lui s’accese.
Deh perché ognor per me lá non si stette!
     Ch’ivi forma vid’io le luci accese
lieta in alto fissar, qual occhio umano
non vide mai, né fantasia comprese.
     — Ecco (l’augel dicea) che non invano
regna pietade in ciel; mira chi deve
a lei che giace un di porger la mano.
     Apre or or l’ali quello spirto e lieve
scende al corso mortale, e l’uman velo
dal re de l’Alpi in chiaro don riceve.
     Spesso alcun’alma, di cui ’l re del cielo
quando gli esce di man piú s’innamora,
anzi che impari a soffrir caldo e gelo
     in qualche stella ottien breve dimora,
perché il suo veggia pria splendor sublime,
che chi ’l vide un momento il pensa ogn’ora.
     Scorgi come l’ardor nel volto esprime,
pur fissa in lui che diede corso a gli anni
e d’immagine eccelse entro s’imprime?
     O ben sparsi sospir, felici affanni,
se al fin con tanto dono, Italia, or vuole
la man superna ristorarti i danni.
     Felice ancor l’alta borbonia prole
che da la Senna in te trasse il sereno,
per cui ’l gran parto aprirá gli occhi al sole.
     Non pianger no, in lasciando il regio seno,
fortunato bambini lascia che piagna
di presaghi timor Bisanzio pieno.
     Ei che la sorte al suo furor compagna
piú non rimira, ei che al sabaudo nome
il Tibisco rammenta e ancor si lagna.
     Giá su la culla udrai cantar si come
ben nove gradi nel salire eterno
questo lume era addietro, e vinte e dome

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     genti avea giá lá dove regna il verno
il sangue tuo. Ma perché ancor si lente
l’alte venture al lieto corso io scemo?
     Vanne, o spirto felice, or che consente
lieta seder su colli tuoi la pace,
e ’l lieto pastorei, che piú romor non sente,
     erra a suo senno e i suoi desir non tace:
vanne a far lieto il forte eroe che pende
in sua speranza e nel dolor pur giace.
     Te ’l patrio regno e te la fede attende,
te implora Italia e il suo valor giá veglio
in te avvivar, erger per te pretende.
     Vanne, ch’io veggio nell’eterno speglio
teco lá giu regnar piú bella Astrea;
vanne e nulla temer, ch’io per te veglio. —
     A pena ei disse e balenar parea;
indi, qual stella suol ne’ tempi accesi,
lo spirto alter l’eteree vie fendea:
     e nulla io vidi piú, nulla piú intesi.