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poesie varie 277


     Quand’ecco ambedue noi nel seno ammette
fiamma del ciel che piú da lui s’accese.
Deh perché ognor per me lá non si stette!
     Ch’ivi forma vid’io le luci accese
lieta in alto fissar, qual occhio umano
non vide mai, né fantasia comprese.
     — Ecco (l’augel dicea) che non invano
regna pietade in ciel; mira chi deve
a lei che giace un di porger la mano.
     Apre or or l’ali quello spirto e lieve
scende al corso mortale, e l’uman velo
dal re de l’Alpi in chiaro don riceve.
     Spesso alcun’alma, di cui ’l re del cielo
quando gli esce di man piú s’innamora,
anzi che impari a soffrir caldo e gelo
     in qualche stella ottien breve dimora,
perché il suo veggia pria splendor sublime,
che chi ’l vide un momento il pensa ogn’ora.
     Scorgi come l’ardor nel volto esprime,
pur fissa in lui che diede corso a gli anni
e d’immagine eccelse entro s’imprime?
     O ben sparsi sospir, felici affanni,
se al fin con tanto dono, Italia, or vuole
la man superna ristorarti i danni.
     Felice ancor l’alta borbonia prole
che da la Senna in te trasse il sereno,
per cui ’l gran parto aprirá gli occhi al sole.
     Non pianger no, in lasciando il regio seno,
fortunato bambini lascia che piagna
di presaghi timor Bisanzio pieno.
     Ei che la sorte al suo furor compagna
piú non rimira, ei che al sabaudo nome
il Tibisco rammenta e ancor si lagna.
     Giá su la culla udrai cantar si come
ben nove gradi nel salire eterno
questo lume era addietro, e vinte e dome