Poesie varie (Lorenzo Mascheroni)/II. La fabbricazione degli istromenti de' martiri

II. La fabbricazione degli istromenti de' martiri

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II. La fabbricazione degli istromenti de' martiri
I. Invito a Lesbia Cidonia Poeti minori del Settecento - Nota (volume II)

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II

LA FABBRICAZIONE DEGLI ISTROMENTI DE’ MARTIRI

Carme.

     Nel terren siculo, non lunge da l’ultima punta
che mira la vicina Ausonia, e fra Scilla e Cariddi
al flutto mediterraneo fa piccolo varco,
sorge la vasta mole ignivoma, che ingombra di fummo
5al puro giorno l’aer e ’l ciel confonde di fiamme.
La credula antichitá quel monte ardente sepolcro
disse giá d’Encelado in versi; da che l’igneo dardo,
piombando da la man di Giove, stese presto traverso
sul seno della madre l’empio semiarso gigante.
10Son favole; che, zolfo quivi nudrendo la terra,
allor che i venti cozzan ne le basse caverne
e il pelago ondisono li flagella, urtandosi contro
l’un l’altro le grosse glebe d’incendio pregne,
qual spesso percossa vibra le faville la selce,
15sciogliesi l’impaziente elemento; e, il monte rodendo,
fino nel ciel di lui liquefatte le viscere manda.
Ma chi dirá donde l’immancabil ésca perenne
sottentri al furiai di foco torrente? chi donde
i massi orribili, che fuori scoccando, minacciano
20i popoli attoniti in faccia de la pioggia pesante?
Nullo ingegno puote natura né il Fabbro di quella,
pensando, agguagliar; non, col dir, svolgere quelli
che ne la perfettissim’opra, quai scherzi, li piacque
spargere mostri vari, meraviglie al guardo de’ saggi
25e non dubbi segni de l’eterna e somma Potenza.
Or quivi, quel tempo che a la bestia negra d’Averno
fu dall’alto dato far guerra e vincer i santi,
si fabbricar l’armi: tal fornace scelsero a l’opra

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i demòni guerrier di lei. La nefanda puranco
30e maledetta fera serba all’Altissimo contra
il violento furor dell’armi, che tanto le costa;
e da la fiamma penai, benché in soggiorno diverso,
pur: «Guerra!» solo «Guerra!» grida. Allor dunque che Cristo
l’imperiai di croce piantò vessillo ne l’orbe,
35e ad adorarlo, nova di redenzion schiatta celeste,
dal suo sangue novo surgean germoglio li santi:
ecco che, tutta l’ira richiamando e de l’arte maligna
i noti consigli, qual opra facilissima pensa
strugger ogni culto di quel nome che odia tanto,
40ma che pur essa cole con a forza incurve ginocchia.
Son mire sue de’ regi stimolar nel petto di falsa
religion lo zelo, e di Giove pei tèmpi cadenti:
anzi pur indomite passion, senz’ombra di causa,
sospetto e gelosia di regno; crudelissima peste
45ch’ebbra di morti, né giammai sazia, cinge
con freddo amplesso i sogli nel sangue nuotanti.
Questo timor d’Erode or medita propagar ne’ monarchi,
pur come se colui, che a donarne il regno paterno
venne, volesse i regi balzar da la bassa potenza.
50Or, perché armi abbian li tiranni all’orride morti
dei cultor di Dio, fierissime mille diverse
il drago d’inferno co’ fedei compagni si porta
a fabbricarle loro. Ahi misero! ei quel tempo peranco
non scorge dove l’arme sue, prima dolci cotanto
55e di lodi alta cagione ai martiri forti di Cristo,
vedrá ne’ templi loro pender per un altro trionfo.
     Dunque, dall’inferno, alzatosi con vasta famiglia
d’atti ministri sui. Satanasso ne l’Etna si caccia
per la superna buca, donde esce la negra favilla.
60Per lo fumo scendon penetrando ne l’ignee grotte
i ciclopi orrendi, giá di fabbri assunta la forma,
membra gigantesche con vasta altezza di corpi.
Pendon i magli gravi da le cinture; parte di quelli
il ferro a incrudelir porta, vasi di onde d’Averne

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65e d’Acheronte fero, che di dannate lagrime cresce.
Scelsero questo loco, per aver li metalli da presso
e nuove continue del buon successo de l’opra,
quando presentasser, d’infernal tossico pieni,
i fatti ordigni per strazio dei martiri sacri
70ai duri carnefici, d’infernal tossico pieni.
Giá quivi pur da loro prove mille ai tempi vetusti
fatte s’erano quanti di spasimo, quanti di morte,
ordigni in bronzo o in ferro fare l’arte potesse.
In quel tempo fue, se fede ai racconti si presta,
75che da furor bestiai spinti la trinacria terra
scòrse i tiranni suo’, e pianse: che de’ figli le membra,
con strazio mai sempre nuovo, lacerarsi dinanzi
e segnar si vedea misera con morti nefande
i di sanguinei, e crudel da le genti chiamarsi.
     80Fu dentro all’Etna, che prima squagliossi e si formò
da ferrai demòni quel mugghiante igneo tauro,
che, di Perii lo poi ne le man passando e de l’altro,
dei míseri ardenti gravido, voci taurine sempre
rendeva per gemiti; e, come pur giustizia volle,
85da’ duci suoi signori trasse il primo e l’ultimo mugghio.
L’officina or riapre la crudel densissima turba,
cresciuta in numero; sgombran le roventi caverne
dai caduti massi, e in fondo fanno ampia piazza:
e prima per decreto di chi regge, a squillo di tromba
90tartarea, i vari uffizi s’intendono fissi
a ciascun di loro. — O egregi, per forza, per arte
— disse Satan, — chi fia? chi di voi, che torpido resti
nel fabbricar l’arme, di velen nel tingere i ferri,
che divorar devono di chi serve a Cristo le carni? —
95Né v’è posa; in varii squadron si dipartono: tosto
altri disegna l’opra e degli orridi molti strumenti
dei feri martini fa i piccoli molti modelli;
a poste incudini altri suda sul saldo metallo;
cento in un istante s’alzan fortissime braccia,
100gran magli ne l’adunche mani. Poi, queste cadendo.

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s’alzan cent’altre in concerto: rivolgesi sotto
intanto il ferro, stretto in mordente tenaglia.
Ma chi ebbe in sorte la cura dei mantici vanne
e per ogni fianco del concavo monte ricerca,
105onde poter, smosse le rupi, dischiudere a’ soffi
dei turbin sotterranei larghissima porta.
Inverso a Peloro, Flegias tantosto si volge:
gran dèmone, e’ ha di bronzo l’ugne, che ha le corna di bronzo.
E poiché senti il vento, che la vasta Cariddi,
110formato nel rapido suo vortice, manda ne l’Etna,
per le sepolte vie, per fargli l’ingresso piú largo,
fra rupe ficca e rupe le diritte altissime corna;
e cosi, fatta leva, ne stacca orrendo macigno.
In guisa consimile, allo scoppio rimbombante
115dell’ascosta mina si svelle, con alto lamento,
dal suo greppo natio la pesante colonna di marmo:
il minator cauto n’ode lungi il vasto fracasso.
Il vento da l’aperta via rapidissimo sorge,
e ingrossa orribile ne la fiammeggiante caverna.
120AUor s’addoppia l’incendio, e, lunghi beendo
sorsi de l’aura nova, Vulcan furibondo s’innalza,
gli astri minacciando di fumo e di cocente favilla.
Nulla però senton di pena pel caldo novello
i flegentontei artefici, cui sembra susurro
125d’aura leve ogni foco, per quel che addentro li cruccia.
Giá cola a ruscelli, anzi a rivi, nel torrido forno
il bronzo e ’l ferro feritor; giá in concave forme
l’accolgon; per lunghe righe derivando, le lunghe
forman acute spade coli ’aste le falci ricurve.
130Intesson questi graticcila di ferree verghe,
destinata a stridere sotto de le membra roventi.
Al bollente olio caldaie qui fondono; e questi
intreccian catene, e annodano co’ graffi le ferze.
Ciascuno si ingegna provveder de’ tiranni la rabbia,
135quanto al meglio puote. Si suda per molte province,

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c’hanno di sangue sacro ben presto a correre tutte.
Ma piú assai per te, Roma barbara. Molto qui porge
d’opra Neron; molto Massenzio; molto Diocle,
cui lavoran piú di mille mani. In un altro riposto
140angolo dello speco, tre giganti ordiscono grande
tartarea invenzion. Rota, che in sul perno si volve,
tutta di coltelli circondata, tutta di denti.
Parte da queste mani n’era omai perfetta; ma parte
scabra giace sotto ai colpi de le mazze sonanti,
145e scintille vibra; rimbomba il fornice largo.
Non Bronte o Sterope, non con nude membra Piracmon
fêr tanto strepito in Lipari per l’ottimo teucro,
quanto ardenti d’ira quei spirti all’Alto ribelli,
mentre l’opre orribili qui affrettano contro de’ santi.
150Né alcun manca pure, che fusil rinnovelli di bronzo
di Falari il tauro; il traggon da la concava forma.
Altri vi si interna, e, se bene sien fatte le fauci,
fanne gemendo prova, e fuor mugghio tosto ne venne.
Stolti! che non gemiti, ma giocondi altissimi plausi
155quinci udiransi, a voi, delusi, lasciando in A verno
i gemiti e il mugghio d’un piú abbruggiante baratro.
Altri pur il tempo non perdono nel loro penso.
Non s’io cent’abbia lingue, e cento abbia bocche,
ferrea pur la voce, potria narrando ritrarre
160tutte de’ tormenti le spezie, tutte le forme.
Che, dappoiché fúr compiute, e a termine tratte:
— Or sia vostra cura — disse il gran prence de l’Orco —
far ch’una non resti nell’ozio pigro sepolta.
Andatene, e de’ regi empitene li superbi palazzi. —
165Partono: e solleciti quei del duce l’ordine fanno.