Poesie varie (Angelo Mazza)/All'abate Carlo Innocenzo Frugoni
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ALL’ABATE CARLO INNOCENZO FRUGONI.
Son io forse poeta? oppur m’inganna
un error che mi piace? Aprimi il vero,
celeste Euterpe. O dea, ben sai tu quanti,
nati a l’ombre e a garrir, corvi importuni,
5nome usurpan di «cigno»; e, l’ale empiendo
di nebbioso vapor, credon sul dorso
d’amica aura febèa l’azzurre immense
strade varcar de lo stellato Olimpo,
mentre con riso de le aonie dèe
10radon, forzati dal pesante volo,
l’umile arena e la natal palude.
Ah! ch’io non erro. Del corporeo velo
in me sento minor l’ingombro e ’l peso
farsi, e in mia mente balenare un nembo
15aureo di luce, che distempra i sensi,
e, rotta la mortal caligin folta,
l’ingegno irraggia, e la ragione affina,
e nuova in me divinitate infonde.
Certo io non erro. Io la ravviso; è dessa
20l’animatrice de’ fantasmi alati,
libera madre de le pinte idee,
al cui cenno la terra, il mar, l’abisso
prendon novi color, novelli aspetti:
la spaziosa Fantasia, perenne
25fonte di maraviglia, eco del vero.
Ella mi fa poeta: ella, che trasse
l’anglico vate su le proprie penne
a vagheggiar de la natura i sacri
giardin ridenti, e gl’istillò nel petto,
30eccitatrice d’ammirabil estro,
de’ suoi piaceri la nettarea vena:
oggi, ch’imprendo a rivestir del tosco
libero idioma lo straniero carme,
per ignota ai volgar mistica legge
35di somiglianza e d’armonia, de’ primi
felici moti e de le prime forme,
le ben disposte obbedienti fibre
de l’agitato mio cerèbro acceso,
e i ben armonizzati organi impronta.
40Cosí il vocale elastico metallo
stampa ne l’aere d’ondeggianti cerchi
armonica catena, a cui risponde
nel flessuoso provocato orecchio
de’ nervei stami il tremolar concorde.
45Ma chi de la sudata opra febea,
ch’avida di mirar l’aperto giorno
l’odiato desco e ’l limar tardo insulta,
sará meta e splendor? Da chi potranno,
se non vengono a te, sperare i carmi,
50in questa ai vati tanto etá nimica,
immortale Frugon, vita e conforto?
Ecco che a te de l’antenorea Atene
d’arti e scienze alma nudrice, e madre
d’anime egregie, a cui fervono in petto
55calde di glorie le faville antiche,
move il mio canto. Al non ignobil dono
vien duce il merto tuo, compagno un sacro
grato dover. De le tebane corde
t’armò Febo la cetra, e l’ali al tergo
60del venosin ti die’: se non che forse
tu a maggior volo le sciogliesti ancora,
quando nel sen d’eternitá cosperse
tutte portasti d’apollinea luce
le glorie, i fatti del borbonio nome,
65d’un Augusto miglior Fiacco piú degno.
Tu al tentar primo de’ miei passi il duro
cammin di Pindo agevolasti; e vidi
per te degnarmi di sorriso amico
la poetica gloria, e al giovin crine
70non vulgar serto ordir. Ma, oh quanto mai
vincer mi resta di quell’ardua rupe,
ove tu, cinto delle prime frondi
del pindarico allòr, risplendi e miri
sudar pedestre innumerabil turba,
75che, nuda di vigor, vòta di genio,
segna nel limo de la falda oscura
magri sensi non suoi, sognati affetti
d’un chimerico amor, etiche idee,
platoniche follie, servili ingegni!
80Del plauso intanto universal sui vanni
dal boreale al mauritan confine
vola il tuo nome a trionfar del tempo.
Frema l’invido biasmo, a cui serpeggia
freddo velen per le maligne vene,
85e de le gonfie ferruginee labbra
soffi l’infesto ai nomi alito tetro.
Non ti caglia di lui. L’ingiusto oltraggio
dá luce al merto; e, in sé sicura e forte,
splende virtú, che sol di sé s’adorna:
90qual, se torbida eclissi assalga e veli
del sol la bella luminosa faccia,
sempre a se stesso ugual, folgora e ride
il gran padre del lume, e sol del denso
tergo lunar l’oscuritade accusa.
95Sí ch’io t’ammiro, inimitabil vate,
e meco tutto al tuo valore applaude
il non discorde giudicar dei saggi.
Tu quello sei che da l’impura nebbia,
che, mista a un lampo menzogner, l’augusto
100viril sembiante le premea, tergesti
la bella Poesia. Per te la cetra,
a cui scordâro in nove fogge i nervi
lo stil ventoso e il pueril concento,
suon piú terso imparò. Per te, rinato
105su le ruine de l’errore estinto,
il buon gusto spuntò, che tra ’l sicuro,
ma ognor temprato immaginar, cui forza
acquistan le socratiche dottrine,
tra il ben adatto colorir, tra ’l vario
110ondeggiar de l’armoniche parole,
libero scorre imperioso e grave.
Non qual vorace folgore, che i foschi
aliti assorbe e il cupo ciel rintrona;
non qual si rota assordator torrente,
115che i svèlti sassi e le sfiancate rupi
dietro si tragge a tempestar sul piano:
ma quale albeggia mattutina e pura
la pittrice del mondo eterea luce;
ma qual ritorna maestosamente
120placido l’oceàn, lasciando addietro
lunga sterilitá d’ingrate arene.
Però non son di bella invidia degni
i versi miei, se l’immortal tuo nome,
facil del suo favore, orma v’imprima?
125Per te, spuntando gl’impiombati strali,
che vibra invan da la venal faretra,
la non temuta dai sublimi ingegni
spensierata censura, arditi in faccia
mostransi al dubbio popolar tumulto;
130né piú san paventar che il manto negro
stenda sovr’essi il tempo, o per la muta
onda di Lete li sommerga oblio.