Poesie della contessa Paolina Secco-Suardo Grismondi/Al signor conte Gulielmo Bevilacqua

Al signor conte Gulielmo Bevilacqua

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Al signor conte Gulielmo Bevilacqua
In Verona da cui presto dovea Lesbia partire Al signor Giuseppe Torelli veronese

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AL SIGNOR CONTE

GULIELMO BEVILACQUA

RISPOSTA AD UNA LETTERA

IN VERSI SCIOLTI DEL MEDESIMO.

TROVAVASI ALLORA CHE SCRISSE

LESBIA PURE IN VERONA


Non mai sì lieta o a selva ombrosa in seno,
     O di fuggevol rio sul margo, allora
     Che tacita la notte il cielo oscura,
     Di soave usignolo udii le note
     Mentr’ei gli affanni suoi racconta a l’aura,
     Come lessi festosa in queste amene
     Piagge dov’io vivea gli ardor fuggendo
     De l’adusta stagion giunti a bearmi,
     Spirto caro ad Apollo, i versi tuoi.
     A ricercare allora in varie guise
     Presi tosto la cetra, e ben lo sanno
     Le Aonie Suore quanti loro io porsi
     Ardenti prieghi, onde potessi voce
     Trarne degna di te, ma fu agl’inviti
     Restìa la cetra, e sorde fur le Muse.
     E come mai poteva io solo avvezza

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     Col rozzo suon di pastorale avena
     Ad affidar le mie querele ai boschi
     Che tradir non mi sanno, e come mai
     Io poteva sperar di sciorre accenti
     Degni di te, cui diede Apollo in dono
     La cetra d’or, che poi le Grazie ornaro,
     E che temprò di sua man propria Amore?
Te mille volte udir queste beate
     Rive, ch’Adige bagna, inni sonanti
     Mandare al cielo, ed eternare i pregi
     Di fortunati eroi; te udiron esse,
     Di Melpomene volto a’ sacri studi,
     Con magico potere accender l’ire,
     Destare il duolo, e trar su volti il pianto.
     Che se pungente stral da duo begli occhi
     In te scendendo il cor ti aperse, allora
     Quai da tuoi labbri non usciron dolci
     Concenti a celebrar il nome amato?
     Spesso ti udìr le Ninfe, e nell’udirti
     Sdegnose tinser di livor le gote.
     Io que’ sacri cipressi, io stessa vidi
     Cent’altre piante la corteccia incise
     Da la tua man, e di sì care cifre
     Segnate ancor pareano al ciel più altere
     Erger le braccia, e le frondose chiome,
     Che scosse a carmi tuoi fer plauso un giorno.

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Che se a quell’ombre grate, a quegli erbosi
     Letti non ti concesse acerba immago
     Di ritornar, se là non ti vid’io
     Deh! lascia almen che ti riveggia spesso
     Qui a la cittade in seno, e di dolcezza
     Mi riempian tuoi carmi, e questi intanto
     Non isdegnar e tardi troppo e incolti,
     Che pur dovean venir sì snelli e gai
     S’essi dal mio desir prendean le penne.