Poesie (Francesco d'Altobianco Alberti)/XCIII

XCIII

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Firenze mia, ben che’ rimedi iscarsi
a tua disposizion languida e inferma
veggia pel lungo istrazio, oltraggio e danno,
e’ figli antichi affaticati e sparsi
col miserabil popol che si scherma,
sì gli aventizî tuoi condotti gli hanno,
l’occulto odio e lo inganno
vicin s’apressa a spelagar suo corso,
po’ che tanto è trascorso
che in tutto è fuor del civil rito antico;
gnun ti riserbi amico
drento o di fuor, da’ tuoi propri negletta,
di libera suggetta;
fatto hai pur sì ch’alfin ti se’ ridotta
scelerata e corrotta
ch’assai ne spacci e pochi ne nutrichi.
Né par che si disdichi
nulla ch’al proprio commodo si stenda,
vedova scapigliata in negra benda.

Quante costituzioni, ordini e leggi
han già rimosso e rinovato a posta
di chi, più sormontando, ognor ti prieme!
E gl’intimi e fedel sempre più aspreggi,
rigida, istrana, ingrata e mal disposta
co’ ’ndegno merto a chi più t’ama e teme,
onde copioso geme
da sì viziosi estremi il mesto seno,
ch’è già sì colmo e pieno
che più non regge, e quel convien che scoppi;
e tuoi prieghi adoppi
come a Numanzia per Tiresio avenne,
che, divisa, convenne
mutar vita, costume, ordine e segno;
né creder che disegno
mai ben rïesca, male oprando l’arte,
per condurre in disparte
quel che conviensi a molti e ’n pochi agogni.
Vuolsi al vero accostar, lasciando i sogni.

Già non è questo il consüeto antico
de’ tuoi patrizî! Onde pigliasti il vizio,
ch’or sì sfacciata al vïolar consenti?
Ché se lor dritto oprâr, tu per oblìco
conculchi ogni virtù, sormonti il vizio;
pe’ satelliti tuoi far più contenti,
come ben t’argomenti!
S’alla miseria tua cumuli affanni,
già venzettesimi anni
ch’a chi me’ pasce più se’ data in preda;
né credo ch’altri il creda
che me’ ne incontri che l’opra si merti.
Solenni, utili e certi
spendevi i giorni; or par che ti rincresca
cosa che ben rïesca,
se non recalcitrare a tua salute.
L’altre opre son perdute,
ch’abito fatto tardi muta il vezzo;
e parlo il ver, non per odio o disprezzo.

D’ogni terribil più l’ultimo è morte,
privazion necessaria, che spaventa
chi piu s’inganna; agli altri è men noiosa.
E ben che tôr quel ch’è dato per sorte
natural puossi, ognun pur s’argomenta,
mentre che può cercar pur qualche posa;
ma tu, sempre ambiziosa,
fai peggio a’ tuoi ch’a’ suoi non fé Giugurta,
onde spesso è resurta
confusa trasgression ne’ membri tuoi,
sicch’a’ rimedi poi
giugnesi al tempo sempre dopo il fatto.
Rinnuovi ogni dì patto,
gli altri riprendi e’ tuoi non par che regga;
credi tu ch’uom non vegga
a che fin sempre a’ buon cresci soverchi
sol che non si ricerchi
quel che ti preme e dal dover ti stoglie?
Ma presto chi Dio manda a punto coglie.

Non credi tu che nulla sia di sopra,
po’ che di sotto ogni atto vilipendi
dagli appetiti infuor lascivi e insani?
Dubiti tu che ’l merto esca dell’opra?
E s’altrimenti, a che dunque intraprendi
d’esser ognor co’ tuoi propri alle mani?
Questi tuoi modi istrani
credo, s’a pochi giova, assai ne incresca
e maggior danno acresca,
perché le some son male agguagliate;
son le sue riservate
a chi si sa adattar, quand’egli è in volta.
M’a chi va a briglia isciolta
spesso ben gl’intervien; a chi mal, pensa!
Per chi poi ne dispensa,
né dorme ognor, che vegghia i fatti tuoi,
provedi or mentre puoi,
ché ’l tardar dubbio e ’l cominciar per tempo
l’un nuoce e l’altro mai fu contro a tempo.

Virtù circa il difficile consiste,
ch’all’altro facilmente ognun s’asetta,
secondo che ’l Filosafo discrive;
e chi pel proprio al comun ben resiste,
usurpator più che civil s’aspetta,
chi così scellerato al mondo vive.
Queste voglie lascive
troppo hai lasciato andar destro e leggiero;
io ti ricordo il vero:
chi l’avesse per male a lui ben venga,
pur che’ vizî si spenga
e tu in salute pristina ritorni.
Filici e lieti giorni
virtù partorirà se fia tua scorta,
ch’altro non se ne porta
alla partita nostra che la fama,
ch’altrove poi ci chiama
secondo l’opre meritorie e degne,
salendo al ciel con trïonfali insegne.

Se ben l’antiche e le moderne carte
tratte ricercherai, tutto raccolto,
da questa insino alla primiera etate,
sempre in colmo vedrai lo ’ngegno e l’arte,
niün violento diüturno molto,
e ’l mondo pien di pessime derrate,
che le cose passate
con le presenti circular ci mostra.
Inclita madre nostra,
faccinsi al corpo i membri e l’alma unita,
ché, se chi può ci aita,
chi ne può nuocer poi, tegnendo il fermo?
Ogni altro è scarso e infermo.
E ch’i’ ’l ricordi, amor mi strigne e scorge;
ma s’altro ne resorge,
ben ch’io sia scuso e pur commisi il danno,
qui sta il dubbio e l’afanno,
di che forse altri e me proprio affatico.
Giudica or tu che ’l sai, se ’l ver ti dico.
— Canzon, convienti aver senno e maniera
altra che l’usitate tue sorelle,
considerato ben quel porti in seno.
Grave, modesta e con benigna cera
guarti dal suon di fraüde mascelle,
delle quali al dì d’oggi il mondo è pieno;
risega il troppo e ’l meno,
co’ virtüosi e’ buon sempre t’accosta;
agli altri ista’ nascosta,
ch’oggi partorisce odio andar col vero.
Ma se fia quel ch’i’ spero,
allor dimostrerrai qual drento giace,
ch’or per lo me’ si tace,
ch’ogni cosa esplicar non si commenda,
ma basta che chi gusta ognor t’intenda.


Finis, Deo laus,
XVII Martii 1449