Poemi conviviali/Poemi di Ate/II L'etèra
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I
O quale, un’alba, Myrrhine si spense,
la molto cara, quando ancor si spense
stanca l’insonne lampada lasciva,
conscia di tutto. Ma v’infuse Evèno
ancor rugiada di perenne ulivo;
e su la via dei campi in un tempietto,
chiuso, di marmo, appese la lucerna
che rischiarasse a Myrrhine le notti;
in vano; ch’ella alfin dormiva, e sola.
Ma lievemente a quel chiarore, ardente
nel gran silenzio opaco della strada,
volò, con lo stridìo d’una falena,
l’anima d’essa: chè vagava in cerca
del corpo amato, per vederlo ancora,
bianco, perfetto, il suo bel fior di carne,
fiore che apriva tutta la corolla
tutta la notte, e si chiudea su l’alba
avido ed aspro, senza più profumo.
Or la falena stridula cercava
quel morto fiore, e battè l’ali al lume
della lucerna, che sapea gli amori;
ma il corpo amato ella non vide, chiuso,
coi molti arcani balsami, nell’arca.
Nè volle andare al suo cammino ancora
come le aeree anime, cui tarda
prendere il volo, simili all’incenso
il cui destino è d’olezzar vanendo.
E per l’opaca strada ecco sorvenne
un coro allegro, con le faci spente,
da un giovenile florido banchetto.
E Moscho a quella lampada solinga
la teda accese, e lesse nella stele:
myrrhine al lume della sua lucerna
dorme. è la prima volta ora, e per sempre.
E disse: Amici, buona a noi la sorte!
Myrrhine dorme le sue notti, e sola!
Io ben pregava Amore iddio, che al fine
m’addormentasse Myrrhine nel cuore:
pregai l’Amore e m’ascoltò la Morte.
E Callia disse: Ell’era un’ape, e il miele
stillava, ma pungea col pungiglione.
E disse Agathia: Ella mesceva ai bocci
d’amor le spine, ai dolci fichi i funghi.
E Phaedro il vecchio: Pace ai detti amari!
ella, buona, cambiava oro con rame.
E stettero, ebbri di vin dolce, un poco
lì nel silenzio opaco della strada.
E la lucerna lor blandia sul capo,
tremula, il serto marcido di rose,
e forse tratta da quel morto olezzo
ronzava un’invisibile falena.
Ma poi la face alla lucerna tutti,
l’un dopo l’altro, accesero. Poi voci
alte destò l’auletride col flauto
doppio, di busso, e tra faville il coro
con un sonoro trepestìo si mosse.
L’anima, no. Rimase ancora, e vide
le luci e il canto dileguar lontano.
Era sfuggita al demone che insegna
le vie muffite all’anime dei morti;
gli era sfuggita: or non sapea, da sola,
trovar la strada: e stette ancora ai piedi
del suo sepolcro, al lume vacillante
della sua conscia lampada. E la notte
era al suo colmo, piena d’auree stelle;
quando sentì venire un passo, un pianto
venire acuto, e riconobbe Evèno.
Chè avea perduto il dolce sonno Evèno
da molti giorni, ed or sapea che chiuso
era nell’arca, con la morta etèra.
E singultendo disserrò la porta
del bel tempietto, e presa la lucerna,
entrò. Poi destro, con l’acuta spada,
tentò dell’arca il solido coperchio
e lo mosse, e con ambedue le mani,
puntellando i ginocchi, l’alzò. C’era
con lui, non vista, alle sue spalle, e il lieve
stridìo vaniva nell’anelito aspro
d’Evèno, un’ombra che volea vedere
Myrrhine morta. E questa apparve; e quegli
lasciò d’un urlo ripiombare il marmo
sopra il suo sonno e l’amor suo, per sempre.
E fuggì, fuggì via l’anima, e un gallo
rosso cantò con l’aspro inno la vita:
la vita; ed ella si trovò tra i morti.
Nè una a tutti era la via di morte,
ma tante e tante, e si perdean raggiando
nell’infinita opacità del vuoto.
Ed era ignota a lei la sua. Ma molte
ombre nell’ombra ella vedea passare
e dileguare: alcune col lor mite
demone andare per la via serene,
ed altre, in vano, ricusar la mano
del lor destino. Ma sfuggita ell’era
da tanti giorni al demone; ed ignota
l’era la via. Dunque si volse ad una
anima dolce e vergine, che andando
si rivolgeva al dolce mondo ancora;
e chiese a quella la sua via. Ma quella,
l’anima pura, ecco che tremò tutta
come l’ombra di un nuovo esile pioppo:
"Non la so!" disse, e nel pallor del Tutto
vanì. L’etèra si rivolse ad una
anima santa e flebile, seduta
con tra le mani il dolce viso in pianto.
Era una madre che pensava ancora
ai dolci figli; ed anche lei rispose:
«Non la so!»; quindi nel dolor del Tutto
sparì. L’etèra errò tra i morti a lungo
miseramente come già tra i vivi;
ma ora in vano; e molto era il ribrezzo
di là, per l’inquïeta anima nuda
che in faccia a tutti sorgea su nei trivi.
E alfine insonne l’anima d’Evèno
passò veloce, che correva al fiume
arsa di sete, dell’oblìo. Nè l’una
l’altra conobbe. Non l’avea mai vista.
Myrrhine corse su dal trivio, e chiese,
a quell’incognita anima veloce,
la strada. Evèno le rispose: «Ho fretta.»
E più veloce l’anima d’Evèno
corse, in orrore, e la seguì la trista
anima ignuda. Ma la prima sparve
in lontananza, nella eterna nebbia;
e l’altra, ansante, a un nuovo trivio incerto
sostò, l’etèra. E intese là bisbigli,
ma così tenui, come di pulcini
gementi nella cavità dell’uovo.
Era un bisbiglio, quale già l’etèra
s’era ascoltata, con orror, dal fianco
venir su pio, sommessamente... quando
avea, di là, quel suo bel fior di carne,
senza una piega i petali. Ma ora
trasse al sussurro, Myrrhine l’etèra.
Cauta pestava l’erbe alte del prato
l’anima ignuda, e riguardava in terra,
tra gl’infecondi caprifichi, e vide.
Vide lì, tra gli asfòdeli e i narcissi,
starsene, informi tra la vita e il nulla,
ombre ancor più dell’ombra esili, i figli
suoi, che non volle. E nelle mani esangui
aveano i fiori delle ree cicute,
avean dell’empia segala le spighe,
per lor trastullo. E tra la morte ancora
erano e il nulla, presso il limitare.
E venne a loro Myrrhine; e gl’infanti
lattei, rugosi, lei vedendo, un grido
diedero, smorto e gracile, e gettando
i tristi fiori, corsero coi guizzi,
via, delle gambe e delle lunghe braccia,
pendule e flosce; come nella strada
molle di pioggia, al risonar d’un passo,
fuggono ranchi ranchi i piccolini
di qualche bodda: tali i figli morti
avanti ancor di nascere, i cacciati
prima d’uscire a domandar pietà!
Ma la soglia di bronzo era lì presso,
della gran casa. E l’atrio ululò tetro
per le vigili cagne di sotterra.
Pur vi guizzò, la turba infante, dentro,
rabbrividendo, e dietro lor la madre
nell’infinita oscurità s’immerse.