Poemi conviviali/Poemi di Ate/I Ate
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il poeta degli Iloti | Poemi di Ate - II L'etèra | ► |
I
O quale uscì dalla città sonante
di colombelle Mecisteo di Gorgo,
fuggendo ai campi glauchi d’orzo, ai grandi
olmi cui già mordea qualche cicala
con la stridula sega. E tu fuggivi,
figlio di Gorgo, dall’erbosa Messe,
dove un tumulto, pari a fuoco, ardeva
sotto un bianco svolìo di colombelle.
Presto e campi di glauco orzo e canori
olmi lasciava, e nella folta macchia,
nido di gazze, s’immergea correndo,
pallido ansante, e gli vuotava il cuore
la fuga, e gli scavava il gorgozzule,
e dentro dentro gli pungea l’orecchia.
Poi che tumulto non udì nè grida
più d’inseguenti, egli sostò. La sete
gli ardea le vene, ed ei bramava ancora
tuffare in una viva acqua corrente
la mano impura di purpureo sangue.
Una rana cantava non lontana,
che lo guidó. Qua qua, cantava, è l’acqua:
bruna acqua, acqua che fiori apre di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Ora egli udì la rauca cantatrice
della fontana, Mecisteo di Gorgo,
e seguì l’orma querula e si vide
a un verde stagno che fiorìa di gialle
rose palustri e candide ninfee.
Come egli giunse, la canora rana
tacque, e lo stagno gorgogliò d’un tonfo.
Or egli prima nello stagno immerse
le mani e a lungo stropicciò la rea
con la non rea: di tutte e due già monde
del pari, fece una rotonda coppa,
e la soppose al pìspino. Nè bevve.
L’acqua era nera come morte, e rossi
come saette uscite dalla piaga
erano i giunchi, e livide, di tabe,
le rose accanto alle ninfee di sangue.
E Mecisteo fuggì dal nero gorgo
chiazzato dalle rose ampie del sangue;
fuggì lontano. Or quando già l’ardente
foga dei piedi temperava, un tratto
sentì da tergo un calpestìo discorde:
due passi, uno era forte, uno non era
che dell’altro la sùbita eco breve:
onde il suo capo inorridì di punte
e il cuore gli si profondò, pensando
che già non fosse il disugual cadere
di goccie rosse dentro l’acque nere,
nè la lontana torbida querela
di quella rana, ma pensando in cuore
ch’era Ate, Ate la vecchia, Ate la zoppa,
che dietro le fiutate orme veniva.
Nè riguardò, ma più veloce i passi
stese, e gli orecchi inebrïò di vento.
Ma trito e secco gli venìa da tergo
sempre lo stesso calpestìo discorde,
misto a uno scabro anelito; nè forse
egli pensò che fosse il picchiar duro
del taglialegna in echeggiante forra,
misto alla rauca ruggine del fiato:
era Ate, Ate la zoppa, Ate la vecchia,
che lo inseguiva con stridente lena,
veloce, infaticabile. E già fuori
correa del bosco, sopra acute roccie;
e d’una in altra egli balzava, pari
allo stambecco, e a ogni lancio udiva
l’urlo e lo sforzo d’un simile lancio,
poi dietro sè picchierellare il passo
eterno con la sùbita eco breve.
Fin che giunse al burrone, alto, infinito,
tale che all’orlo non giungea lo stroscio
d’una fiumana che muggiva al fondo.
Allor si volse per lottar con Ate,
il buono al pugno Mecisteo di Gorgo;
volsesi e scricchiolar fece le braccia
protese, l’aria flagellando, e il destro
piede più dietro ritraeva... e cadde.
Cadde, e, precipitando, Ate vide egli
che all’orlo estremo di tra i caprifichi
mostrò le rughe della fronte, e rise.