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La schietta onda, che fuor dell’inclinate
Bocche sonando prorompea, sollecite
Nel sanguinoso guazzo altre si diedero
Le scope irsute ad agitar, non senza
Serrar fra l’ànche le ondeggianti vesti;
Altre, menando le assetate spugne
Con volubile braccio, ebbero in breve
Nitida fatta la marmorea sala.
Dal mucchio degli uccisi ultimò venne
Antinoo tratto, il più giocondo fiore
Dell’itacense gioventù: vincea
Tutti in bellezza ed in burbanza, e prima
L’avea d’ogn’altro il fatal arco vinto.
Fuori il trasser nell’atrio, e solo, in parte
L’adagiarono contro ad un pilastro
Presso la porta, su d’un bronzeo scanno,
Sì che spirar parea: volean con questo
Maligno gioco saettar la mente
De le ancelle, però che le proterve
Della specie di lui tutte eran prese,
Ed a’ bei dì sel disputavan. Bianco,
Non deformato dalla morte ancora,
Come di tuberosa, era il suo volto;
E quai grappi di nera uva, alla prona
Fronte e alle gravi palpebre un’azzurra
Ombra irrigavan le scomposte ciocche.
Lo videro le donne, ed i singulti
Soffocavan ne’ petti ansj, ma calde
Le lagrime piovean fuor de’ loro occhi.
Essa Euriclea, benchè già vecchia e troppo
Delle vendette del padron contenta,
Sentì serrarsi il cor: poi che all’aspetto
Di quel corpo venusto entro alla fredda
Ombra di morte acerbamente immerso,
D’un suo figliuol si risovvenne, pari
D’anni e non meno agli occhi suoi leggiadro.
Cui non avverso acciar, ma un improvviso
Malor le aveva in un sol dì mietuto.
Si fe’ da presso al giovinetto esangue
La saggia vecchia, e lentamente il bianco
Capo crollando tra le curve spalle,
E carezzando con trepida mano
Quella gelida guancia: Oh, non avessi,
Non avessi tu mai qui pòsto il piede,
Ripetea sospirosa; a te di ameni
Sollazzi i campi, a te di laute mense
Scarsa non era la magion paterna;
Ma ambizíon ti vinse, e forte solo
Del tuo piacer qui ne venisti i censi
A disertare, a soqquadrar le case
Del miglior degli eroi; folle, e ti parve,
Poi che in beltà gli emuli tuoi vincevi,
La consorte di lui facil conquisto.
Misero! e qual di senno opra o di braccio
Far ti poteva a quella donna accètto,
Che l’inconcusso talamo al ramingo
Marito custodía vigile, e sempre,
S’anco morto il sapea, pianto l’avrebbe,
Caste frodi tramando a cui voglioso
Era e pur tanto del suo core indegno?
A te, fuor che di balli e di furtivi
Mescolamenti, non accese mai
Nobile ardor questo femmineo petto
Ch’or non palpita più; fuor che d’alterno
Mutar di gozzoviglie, a te più saldo
Pensier mai non picchiò qui dentro a questa
Breve fronte di marmo, a cui sì pura
Forma, certo per gioco, un dio concesse.
Bello non era il figlio mio? Ma forte
Era del pari e alle fatiche avvezzo;
In poc’ora ei perì, ma su l’onesto
Lavoro la ferrigna Ate il percosse.
Te in ozj turpi un dio prostrò; cadesti
A par d’infruttuoso arbore, in cui
Vibra fischiando il contadin la scure:
Poco esso dura a’ colpi aspri, chè vuoto,
Ancor che liscia ha la corteccia, è tutto,
E con vano fragor cade, allietando
Il provvidente agricoltor, che sgombro
Respirar vede il campo e liberati
Dall’uggia grave i sottostanti arbusti.
Tu cadesti così; così deh possa
Giove sempre colpir chi, di benigni
Sensi sdegnoso e ad alte imprese inetto,
Nelle sostanze altrui, nelle altrui donne
L’iniqua mano insidíoso avventa!
CIRCE.
Poi che l’eroe di multiforme ingegno
Dalla magica sponda il legno sciolse,
Tornò pensosa al rilucente albergo
E al suo telajo d’òr Circe si assise,
Circe, terribil dea che dall’austera
Itacense virtà prima fu vinta.
Pigra scorrea tra’ varíati stami
La spola, agile un dì; raro l’arguto
Pettine castigava il lento ordito,
Già che il pensiero della dea lontano
Veleggiava dall’opera e l’alata
Prora inseguía con le profonde ciglia.
Su l’inarato mare alto splendeva
Centuplicato dagli ondosi specchi
E dal palagio adamantino il Sole;
Ma non come già tempo ella esprimea
Dal niveo petto le squillanti voci:
Tutto intorno tacea, se non che il lene
Mormoreggiar de le bacianti spume
Mesceasi al canto del vicin querceto,
D’ombre largo e di cibo all’insolente
Mandra, che intrisa del circèo veleno,
Dell’esser primo e del mutato aspetto
Poca memoria e nessun danno avea.
Tutto quanto fu il dì, con mesta cura
Mirò la dea l’avventurosa vela;
Nè l’acume divin pria le fu scemo,
Che tra ’l vapore vespertin, cresciuto
Dal fumo dell’istante Erebo, quasi
In grembo al suo destin, quella s’immerse.
Un insolito affanno allor più volte
Le scosse il cor già sempre uguale, e pianto
Forse ella avría, se da la sua pupilla
Era il velarsi d’una tal rugiada.
Pur la faccia marmorea al cielo eresse,
E al Sol che grande e nitido pendea
Sul mar già fatto d’ametista, in voce
Supplichevole: O Sol, disse, o veggente
Padre, e tu Perse, veneranda prole
Dell’Oceán che tutto allaccia, oh s’io
Da voi non nacqui indarno, e di sì strana
Beltà non fui per mio ludibrio adorna,
Un mio prego ascoltate; e quando il nume
Di Giove o il poter vostro a voi nol vieti,
In mia sola mercè dategli effetto,
Sì che la cura io domi, onde son morsa
Veracemente, dacchè un uom mortale
Me vinse e il mio candido letto ascese.