Platone in Italia/Al lettore
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AL LETTORE
Il manoscritto greco che ora ti do tradotto, o lettore, fu ritrovato da mio avo, nell’anno 1774, facendo scavare le fondamenta di una casa di campagna, che ei volea costruire nel suolo istesso ove giá fu Eraclea. Ogni angolo dell’Italia meridionale chiude tesori immensi di antichitá; e non ve ne sarebbe tanta penuria, se i possessori non fossero tanto indolenti quanto lo è il ricco possessor del terreno ove era una volta Pesto, e dove oggi non vi si trova neanche un albergo per ricovrar coloro che una lodevole curiositá move dalle parti piú lontane dell’Europa a visitar le mine venerabili della piú antica cittá dell’Italia1.
Mio avo, eruditissimo, come tutto il mondo sa, nel greco idioma, tradusse il manoscritto. Ma egli avea giurato di non pubblicarlo; e, se ancora vivesse, il manoscritto non vedrebbe la luce del giorno. Qualunque sia il giudizio che il pubblico pronunzierá sopra questo libro, tutto il male, e tutto il bene, che potrá produrre, dovrai, o lettore, attribuirlo alla morte di mio avo ed alla mia disobbedienza agli ultimi suoi comandi.
— Che vale — egli mi diceva — rammentar oggi agl’italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici? Oggi non lo sono piú. Che vale rammentar loro che furono un giorno gl’inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano? Oggi è gloria chiamarsi discepoli degli stranieri. —
Io ho pensato diversamente da mio avo, ed ho risoluto pubblicare il manoscritto.
Non ti annoierò, o lettore, con lungo discorso per dimostrartene l’autenticitá. Tutto ciò che io potrei dirti si ridurrebbe infine a mostrarti l’esistenza dell’autografo. Or l’autografo di mio avo si conserva da me, e son pronto a mostrarlo a chiunque abbia desiderio di vederlo. Che poi Eraclea sia stata una cittá tra Turio e Taranto, nel luogo che oggi chiamasi Policoro, e che nel suo territorio siensi ritrovati molti monumenti antichi, e tra gli altri le due celebri tavole commentate dall’illustre Mazzocchi, dii non lo sa? E qual meraviglia che dove sonosi ritrovati tanti altri monumenti siesi ritrovato anche questo?
Sappiamo che Platone è stato in Italia. Ce lo attesta Apuleio e colui il di cui detto vale piú del detto di Apuleio, Cicerone. Che poi questo manoscritto sia consentaneo a tutte le tradizioni che la storia ci ha tramandate, apparirá chiaro dalla consonanza d’infiniti suoi tratti coi tratti degli scrittori piú accreditati della Grecia e di Roma.
Cicerone ci ha conservata la memoria di un colloquio sulla virtú tenuto in Taranto tra Archita, Platone e Ponzio sannita. Sapevamo da Plutarco che Platone non aveva mai approvati li Pensieri di Dione, che volea ristabilire il governo popolare in Siracusa; ma s’ignoravano le ragioni che avean mosso Platone a dissentir da Dione. Sapevamo che Platone avea tenuto con Dionisio un lungo ragionamento sulla felicitá; ma ci era ignoto ciò che gli avea detto. Or in questo manoscritto tali ragionamenti ritrovansi quasi interi. Vi si parla di Archita, di Timeo, di Ocello, di Alesside, ecc. ecc., e si descrivono quali giá ci apparivano o dalla storia o da quei frammenti delle opere loro che son pervenuti fino a noi. Si vuol di piú? Vi ho notati molti passi che Virgilio ha poscia imitati colle stesse parole, quale è, per esempio, quello con cui il sannita Ponzio, parlando de’ suoi maggiori, li chiama «gente dura, nata dai duri tronchi degli alberi». Questi passi e mille altri simili, che il lettore potrá osservar da se stesso, mostrano, nel medesimo tempo, ed il pregio di questo manoscritto e la sua autenticitá.
Nulla dirò in sua lode: il solo nome di colui che ne è l’autore, o almeno il personaggio principale, basta a commendarlo. Parlerò solo di ciò che vi si è aggiunto.
Oltre le molte citazioni e quasi direi concordanzie cogli scrittori meno antichi, delle quali giá ti ho fatta menzione, mio avo vi aggiunse talune dilucidazioni ai luoghi ne’ quali il testo pareva oscuro e qualche supplemento ove vi era qualche lacuna. Tutto ciò che vien da mio avo si troverá segnato con un asterisco.
In quanto a me, il primo dubbio che nacque nella mia mente fu sull’epoca del viaggio che formava il soggetto del manoscritto. Dopo molte indagini, ho creduto poterla fissare sotto il consolato di Appio Claudio e di Lucio Camillo. Troppo chiara è la testimonianza di Cicerone, il quale parla di ciò come di cosa certa, narrata a lui da Catone ed a Catone da Nearco tarantino, discendente di quello stesso Nearco che avea conosciuto Platone in Taranto e frequenti ragionamenti avea avuti con lui2. Il consolato di Claudio e di Camillo cade nell’anno di Roma 406. Il trovarsi nell’opera molte volte nominato un Nearco, ed appunto in quel ragionamento di cui parla Cicerone, mi ha indotto a seguire senza altro esame l’epoca segnata da lui.
Ma chi è mai quel Cleobolo che tanta parte ha in questo libro? Molte indagini ho fatte per saperne piú di quello che il mio testo ne diceva. Ma niun altro scrittore ne parla, e se non si fosse ritrovato questo manoscritto, forse chi sa se si saprebbe la sua esistenza? Il carattere di questo Cleobolo riluce bene dal l’opera. Ma la sua condizione? i suoi genitori? Solo sappiamo che era ateniese, giovane di etá, ben nato, bene educato. Io pensava aggiungere all’opera un’appendice, in cui volea ragionare di tutt’i Cleoboli de’ quali fa menzione la storia; riportar tutte le iscrizioni nelle quali vi fosse nominato un Cleobolo; dar l’etimologia del suo nome, la quale è nel tempo istesso fenicia, ebrea, caldea, punica ed etiopica; ed indicare finalmente l’uso che di tal nome si faceva in Atene. Ma, dopo aver molto lavorato a riunir i materiali per questa tale dissertazione, un amico, di cui valuto molto il giudizio, mi disse e mi convinse che con tante ricerche io non avrei dimostrato mai nulla, e che il Cleobolo mio poteva non esser nessuno di tutti i Cleoboli noti. Come va il mondo! e da che mai dipende la gloria umana! Forse questo mio Cleobolo sará stato un sublime filosofo, un prudentissimo magistrato, un invitto capitano: mille azioni avrá fatte degne di memoria; mille poeti, mille oratori, mille storici lo avranno lodato ed altri mille biasimato: eppure, se a mio avo non fosse venuto il talento di costruire una casa di campagna sul territorio dell’antica Eraclea, tanta virtú e tanta gloria non avrebbero salvato il suo nome dall’obblio!
Ho dovuto faticar molto per mettere in ordine i vari frammenti (né altro nome posson meritare) che componevano il manoscritto.
Primieramente era necessario sapere qual ne fosse il titolo. Sventuratamente la prima pagina era la piú maltrattata dal tempo. Appena vi si potean leggere queste lettere, scritte con quelle note, che gli esperti nella paleografia greca chiamano «unciali». e che indican sempre un manoscritto antichissimo3:
ΗΛΑΤΩΝ . . . . . . . ΙΤΑΛ . . .
Ho creduto bene di tradurre Platone in Italia, non perché tal fosse la lettera del testo (e te ne prevengo, benigno lettore, onde non mi accusi di infedeltá o di inesattezza), ma perché questo era il titolo che meglio conveniva all’opera.
Questo libro a chi mai si deve attribuire? a Platone? a Cleobolo? Siccome in origine essa altro non era che una raccolta di epistole, cosí ve ne saranno state di Platone, di Cleobolo, di Archita, di Timeo, e chi sa di quanti altri. Di quelle però che rimangono, il maggior numero appartiene evidentemente a Cleobolo. Pare che, durante il tempo del viaggio, costui abbia scritto piú di Platone, come per l’ordinario avviene in tutt’i paesi del mondo che i giovani scrivan sempre piú dei vecchi, e talora anche per i vecchi. Ma, sebbene quegli che scrive sia per l’ordinario Cleobolo, son sempre però Archita, Platone, Timeo, Ponzio quei che o ragionano o decidono; e Cleobolo appare sempre un giovinetto vago di istruirsi, che interroga i suoi maestri e fa tesoro delle loro dottrine. Forse avrá fatto conserva anche dei nomi delle belle, delle quali si mostra tanto amico quanto dei filosofi; ed un viaggiatore elegante, quale egli era, non dovea trascurarle. Ma, con gravissimo danno della letteratura, il tempo, che ha rispettata una parte de’ suoi registri politici e letterari, non ha conservati i suoi souvenirs galanti.
Volendo però giudicare dell’opera intera, pare che taluni tratti non sieno né di Archita, né di Platone, ne di Cleobolo. né di verun altro nel libro nominato. Questo mi ha dato sul principio molto a pensare. Ma ho poi finalmente riflettuto che, se mai quest’opera fosse la collezione del commercio epistolare che ebbe Platone nel tempo che fu in Italia, qual meraviglia sarebbe che un uomo qual era Platone avesse un commercio piú esteso di quello che noi sappiamo? Chi ci assicura che quest’opera sia giunta a noi intera? Prima che s’inventasse la stampa, i libri eran molti rari e le copie costavan molto. Aulo Gellio ci parla di un tal suo amico, il quale pagò venti soldi d’oro per aver il solo secondo libro dell’Eneide4. Molti, i quali non poteano spender di piú, si facean copiare di un’opera quei soli tratti che servivano al loro uso; e, se taluno si è contentato di aver separato e diviso da tutti gli altri il secondo libro dell’Eneide, la quale pure era un’opera, per l’unitá dell’azione e la grandezza dell’interesse, non divisibile; qual meraviglia che un altro si abbia fatto copiar soli pochi tratti di un’opera che comprendeva oggetti tanto diversi tra loro? Quando si tratta di cose degli antichi, nulla ci deve far meraviglia, tra perché gli antichi spesso son piú simili a’ moderni, tra perché spesso son piú dissimili di quello che il volgo crede.
Queste lacune però han reso ben difficile il disporre tutte le parti del manoscritto in una serie conveniente. Si potean ordinare e per materia, come suol dirsi, e per tempo. Io ho creduto piú facile la seconda, perché la prima disposizione mi obbligava a molte traslocazioni, e perché anche, tra ’l disordine in cui era il testo, appariva che le varie parti eran state in origine disposte per serie cronologica.
Talune parti aveano ed il nome ed il carattere di una lettera; si leggeva e da chi ed a chi erano scritte: in talune altre mancava il nome or dell’uno, or dell’altro, or di ambedue. Ho lasciata ciascuna parte quale si era ritrovata: ove vi è mancanza, supplirá l’ingegno tuo, o lettore. Spesso nel corso dell’opera è indicata la ragione per la quale una parte si trova in un sito anziché in un altro; ed ho tentato cosí di dare un nesso a quelle idee ed a quei fatti, i quali pareva che non ne avessero alcuno. Tu vedrai con quanta felicitá io vi sia riuscito.
Duoimi però che tali lacune ci abbian privati di molte desiderevoli notizie sullo stato politico dell’Italia e sulla filosofia di Pittagora, la quale pare che sia il soggetto principale del libro. Duolmi sopra tutto veder lacune piú grandi ove parlasi delle cose di Sicilia, la di cui storia è nel tempo istesso tanto importante e tanto oscura. Perdita tanto piú dolorosa, quanto piú singolari sembran talora esser le opinioni di colui, chiunque egli siesi, che ha scritto questo libro. Se esso ci fosse pervenuto intero, avremmo, o lettore, una storia della Magna Grecia diversa da quella di Golzio, ed una storia della filosofia italica diversa da quella di Scheffero e di Brukero.
Ho tentato di supplire a questo vòto con alcune mie note, le quali si troveranno riunite in fine dell’opera, sotto il nome di «appendici». Ma io le considero come due braccia, che un dozzinale artefice moderno voglia rimettere ad una bella statua antica. Solo ti prego, o lettore, se mai talune cose, che leggerai nel testo, ti sembreranno strane e lontane dalla comune opinione, a non volerle tosto condannare, ma a sospendere il giudizio tuo finché non abbi lette le mie appendici. Anche in me la lettura del testo produsse una quasi nauseosa sensazione di stranezza; ma, pensando molto su quello che in esso si diceva, son giunto a convincermene, e mi sono accorto che questa sensazione di stranezza è spesso una scusa per dispensarci dal pensare.
Era giunto a questo punto, o lettore, quando un mio amico, cui io avea dato a leggere il manoscritto, è venuto da me, e mi ha fatto quel ragionamento che io voglio trascriverti intero, ad onta di dover render anche piú lunga questa mia giá lunghissima prefazione.
Amico. Tu dai alla luce un’opera senza unitá di azione. Che volea far mai in quel suo viaggio il tuo Cleobolo, o Platone, o chiunque egli sia?
Risposta. Viaggiare.
Amico. Ma chi viaggia è necessario che abbia un fine, una mèta. È necessario che l’abbia chi vuole stampare un’opera qualunque. In cotesta opera tua si parla di leggi, di arti, di politica, di musica, di scienze, di amore; e di che mai non parla cotesto tuo greco?
Risposta. Il mio greco viaggiava e scriveva tutto ciò che gli avveniva o che osservava nel suo viaggio.
Amico. Ma non vi è azione, questo è il male, non vi è azione. Una volta pare che siesi innamorato di una tale donnetta, e poi non se ne parla piú... E Cleobolo va nel Sannio, e poi nella Lucania, e poi non ritorna in Taranto; e... e Platone si trova, senza saper né come né quando, in Sicilia...; e poi...
Risposta. Circa gli amori di Mnesilla, non so che dirti. 11 testo non ne dice piú; ed io, in coscienza, non poteva aggiugnervi nulla, né dar per fatti le mie invenzioni, in cosa tanto delicata per l’onor del suo amante e di lei. Circa a tutto il resto, ti dico che vi è nell’opera un’azione continuata ed unica ed un disegno regolarissimo. Un ateniese vien dalla sua patria per conoscere i pitagorici e l’Italia; osserva tutto ciò che gli piace di osservare; scrive tutto ciò che gli piace di scrivere: giunge, viaggiando, fin dove vuol giugnere; e ritorna nella sua patria per quella strada che gli sembra la piú comoda. Tu vedi che l’azione è unica ed intera.
Perché non abbia scritto di talune cose e perché abbia scritto di talune altre, perché non sia stato piú lungo, perché non sia stato piú breve, non saprei dirtelo. Gli antichi parlavano e scrivevano in modo diverso dal nostro. Eran lunghi parlando, perché dicevano tutto ciò che era necessario a dirsi; eran brevi scrivendo, perché non scrivevano nulla di piú di quello che era necessario a scriversi. Tra noi moderni una conversazione simile ad un dialogo di Platone o di Cicerone farebbe morir di noia gli uomini di mondo; ed un libro breve, come sono quelli d’Ippocrate, farebbe morir di rabbia gli uomini di lettere. L’arte di comporre i trattati è posteriore di molto all’invenzione della stampa.
Montaigne dicea: «Io sono annoiato di tutti gli scrittori de’ miei giorni. Se uno di essi ha visitati i luoghi santi e vuol narrarti ciò che ha veduto, ti fa un trattato di geografia; se un altro ha scoperta la virtú particolare dell’acqua di una sua fontana, ti parla di tutti i fondi, di tutti i laghi, di tutti i fiumi e di tutti i mari della terra». Io ti prego, amico, a voler giudicare di un autore da ciò che ha detto, e non da ciò che dovea o poteva dire.
Cosí finí il dialogo coll’amico. Io ho voluto trascrivertelo intero, o lettore, onde tu sappia che, se mai non avessi da opporre a questo libro altro di quello che gli ha opposto l’amico, potrai ben dispensartene, perché né tu avresti nulla di nuovo da dirmi, né io avrei nulla di nuovo da risponderti.
Sta’ sano.