Platone in Italia/I. Di Cleobolo

I. Di Cleobolo

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Al lettore II. Dello stesso

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I

Di Cleobolo

[Ripensando alla patria lontana — Teoria di Socrate sui viaggi confutata — Utilitá vera dei viaggi: scorgere che la legge della natura è una, inesorabile, immutabile — Arrivo a Taranto.]

. . . . . . . Giá oltrepassate le ardue cime del promontorio lapigio e le basse terre de’ salentini, un fresco venticello di levante spingeva la nostra nave verso il fondo di quel seno che prende il nome da Taranto. I marinari tutti dormivano; il pilota vegliava sul timone; io e Platone sedevamo sulla poppa taciturni. Il silenzio universale che regnava intorno a noi, rotto soltanto da quel rumore cupo ed uniforme che ha il mare quando non è agitato da tempesta; l’immensità di un orizzonte che non aveva limiti, ed in cui il contrasto dell’ombra della notte che si ritirava e della luce, ancora incerta, che in taluni punti la fendeva, in altri appena la diradava, e che riflettevasi in mille modi diversi or dalle nuvole, or dall’onda, or dalle cime de’ monti: tutto ne allettava a quella dolce estasi, che forma la parte piú deliziosa della nostra vita.

Non saprei dirti che mai volgesse in mente Platone. I miei pensieri erano cogli astri, che giravano maestosamente taciturni per la vòlta azzurra immensa de’ cieli. Io vedeva l’Orsa giá giá tuffarsi nell’onda, e Lucifero, quasi ancora stillante di rugiada marina, seguir i lenti passi delle Pleiadi, le quali, ritornando nel mare, ridestano l’agricoltore alle nuove opere del giorno vicino.

— A quest’ora — dissi io a me stesso — in Atene l’Orsa non si vede piú: l’agricoltore ha giá aggiogati i suoi bovi; in [p. 12 modifica]Egitto giá conta due ore di lavoro... E da otto giorni l’apparire di questi astri non rammenta piú agli amici della mia fanciullezza il mio nome tra i nomi di quelli che essi vedranno nel giorno!... E la madre mia ha indirizzate agli dèi le sue preghiere della mattina; li ha pregati per me; ed io non sono stato al suo fianco!...

— O Platone — dissi allora, — non ti pare che l’uomo sia il piú superbo tra gli animali? Destinato ad occupare appena una spranna nell’immensitá dello spazio, mette tanta distanza tra il punto in cui nasce e quello in cui vive, che diventa commensurabile anche coll’infinita orbita degli astri. Che tentiam mai con questi tanti viaggi? Che speriam noi ottenere abbandonando tutto ciò che ci è caro?

— O Cleobolo — rispose Platone, — se avessi voluto anche in questo seguir i precetti di Socrate, io non sarei mai uscito dalla mia patria. È stoltezza credere che gli dèi abbiali posti gli uomini nell’Attica e la felicitá nell’India e nell’Egitto. Ma per esser felice nella sua patria e tra i suoi concittadini, è necessario poter fare il bene: l’uomo inutile ai suoi diventa in breve tempo noioso a se stesso ed infelice. Or chi, dopo la misera sorte del piú saggio degli uomini, chi potrebbe ritentar di nuovo l’indocile razza degli ateniesi1 Al savio, in tanta corruzione di uomini e di cose, non rimane altro che avvolgersi nel suo mantello e tacere, e rivolger la sua mente, dagli errori e da’ vizi de’ mortali, alla contemplazione delle cose intellettuali e celesti. Non potendo piú esser cittadino della sua patria, è necessitá divenir cittadino dell’universo. Socrate volea richiamar la filosofia nella casa. Egli la considerava come un alimento: ma per l’uomo, che vive tra uomini corrotti ed in cittá disordinate, è anche una medicina.

Noi passiamo in una terra per te nuova. Vedrai altri uomini: ma da per tutto e sempre le stesse passioni, gli stessi vizi, gli stessi errori; da per tutto un picciol numero di savi, che predicano inutilmente al volgo la virtú e la veritá; da per tutto [p. 13 modifica]il gran numero che perseguita i savi, per seguir le proprie passioni, e che poi si pente per non aver ascoltati i loro precetti. Questa è la storia di tutto il genere umano. Queste terre, che vedrai, son tinte anch’esse del sangue de’ savi e lorde dalle scelleratezze de’ popoli. Quivi, del pari che in Grecia, un popolo ha distrutto l’altro, ed il promontorio Iapigio, che ieri sera lasciammo, è forse piú infame per i delitti de’ suoi abitatori che per le tempeste del mare che lo circonda.

Che giova, dirai, osservar tutto questo? Giova, perché, ritornando nella propria casa, uno possa esser convinto che la legge della natura è una, inesorabile, immutabile; che né luogo, né tempo, né variar di opinioni o di costumi cangia l’ordine eterno, per cui la veritá e la virtú o sono seguite o vendicate. L’uomo diventerá allora o piú felice o pivi paziente. —

Cosí dicendo, ci passavano dinanzi le isole Coreadi, e scoprimmo il porto di Taranto. La città si stendeva ampiamente in giro lungo le sponde del mare, e dove fínivan le mura della cittá, incominciava una serie di case di campagna, che presentavano il pomposo e piú vasto anfiteatro che mai abbia veduto occhio umano. Di giá sul faro si vedeva sventolar la bandiera, che annunziava agli abitanti il prossimo arrivo di un legno ateniese. I marinari, giá desti, libavano a Nettuno e salutavano la terra ospitale; e quei, che giá aveano fatto altre volte tal viaggio, indicavano ai compagni e le torri ed i tempii e le piazzie principali della cittá. Giá si udivano le voci dei cittadini che eran sul molo... Un altro colpo di vento... e siamo nel porto.

  1. PLATONE, Epistolae, passim.