Perchè il poema di Dante sia il più moderno di tutti?
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SIA IL PIÙ MODERNO DI TUTTI?
detta nella sala dello SPETTATORE ITALIANO in Firenze
Un poeta francese già caro a tutti gli animi affettuosi e gentili, ma sorvivente, come tanti altri, alla sua antica popolarità, sdegnoso forse dell’eterna gioventù del nostro maggior poeta italiano, prese non ha guari in un suo corso di letteratura, a constatare i titoli più solenni della sua gloria, facendosi eco di viete censure e di obbliate calunnie.
I pochi italiani a cui cadde sotto’occhio codesto libello, non tanto per rivendicare la gloria di Dante, quanto per pietà dell’illustre scrittore che abusava in siffatte polemiche l’autorità del suo nome, ridussero al loro giusto valore le critiche Lamartiniane.
Questi replicò alla francese, e in luogo di confessare il suo torto, ci consigliò a gittar via la Commedia di Dante, e ad accorrere piuttosto sugli Appennini, armati di buoni fucili, e non di terzetti teologici.
Il consiglio era buono, e noi l’abbiamo seguito: ma con tutta la riverenza dovuta al signor Lamartine, siam venuti fra gli Appennini col fucile ad armacollo, e col poema di Dante nel sacco.
E prima di lasciar Parigi, io per mio conto m’ingegnai di provare al poeta d’un tempo, e al critico d’oggidì, come l’una cosa e l’altra, il fucile cioè, e i terzetti danteschi, anzichè essere in opposizione fra loro, cospirassero al medesimo intento; poichè gli uni ci aveano insegnato ad amare l’Italia, l’altro ci era opportuno istrumento a costituirla e a difenderla. Dante creando o almeno unificando la lingua ci avea dato l’istinto e la coscienza della patria comune. I fucili sarebbero inutili senza quest’intimo sentimento che tutti ci lega. Animati da questo avremmo affrontato volenterosi il cimento delle imminenti battaglie, senza credere sacrilegio strappare, ove occorresse, qualche pagina al sacro volume, per avvolgere la polvere e la palla serbata ai nemici d’Italia.
Non so se il poeta francese, il tenero e appassionato cantore di Elvira sia stato capacitato da queste ragioni; so che non è più tornato sull’argomento. Anzi da nemico generoso, siccome egli è, prese a magnificare nei fascicoli successivi un’altra gloria italiana, il Petrarca ch’egli pone al di sopra di Dante, forse perchè simpatizza colla sua fibra malinconica e non trascende la sfera delle sue vaghe e fantastiche aspirazioni.
Il fatto sta che il Petrarca dovrà molto alla parola di Lamartine se ritornerà in grazia per alcun tempo ai lettori francesi; mentre il poema di Dante, malgrado i giudicii avventati di un uomo che forse in alcun tempo ne aveva sperato la successione, non è mai stato nè più vivo nè più moderno ch’ora non sia.
Potrei citare a provarlo il numero sterminato di commenti e delle traduzioni che escono d’anno in anno in Francia, in Inghilterra e in Germania: potrei citare le cattedre speciali che si vanno erigendo in tutte le città che aspirano al nome di culte per ispiegarne al popolo il senno riposto e le divine bellezze: potrei citare le nuove edizioni che se ne fanno in questo e nell’altro emisfero, tante che, tranne la Bibbia, nessun libro può vantarne di più frequenti; potrei citare migliaia e migliaia di giudicii pronunciati dagli uomini più competenti d’ogni nazione...
Ma a che provare tanto apparato di erudizione una cosa che è già per sè manifesta? Non basta a mostrare come il poema di Dante sia il più moderno degli altri, la presenza in questo luogo di una sì eletta corona di spettatori? Io so bene, gentili dame, che voi non siete sì tenere, delle anticaglie - ammenochè non sieno di quelle alle quali il soffio vivificatore dell’arte impresse quel carattere d’eterna gioventù ch’è il sigillo del genio. Codeste anticaglie divengono allora più moderne che mai, e questo è il caso del gran poema che noi ci proponiamo di svolgere e meditare.
Tutt’al più, poichè anche in cosa per sè manifesta non può far male un giudicio che la confermi, mi piace di appoggiare il mio asserto colle parole di una illustre scrittrice francese, testimonio competentissimo non solo in fatto di moda, ma in fatto di lettere - una donna che scrisse elegantissimi versi nella sua lingua e portò, senza dar luogo a facezie, il prenome di Amabile.
Il est des noms qu’on péut prononcer sans réveiller tout un siécle. Tel est celui de Dante Alighieri. Cette grande et majestueuse figure se dresse, pour ainsi dire, sur les confins de la poésie antique et de la poésie moderne, et y scelle de ses mains l’aneau brillante et indestructible qui les units l’une à l’autre: la Divine Comédie. Homme aux passions gigantesques, qui trouvait que l’enfer n’ètait pas trop pour les objets de sa haine, et le Paradis pour ceux de son amour, génie pouissant qui créait à la fois une poésie et une langue et pouvait soumettre sans l’affaiblir sa chaleureuse inspiration a la patiente et subtile analyse du grammairien: poéte, philosophe, théologien, politique, vivant à la fois de la vie active e de la vie contemplative, Dante n’est pas de ceux qu’on puisse connaitre par quelques fails et par quelques dates. Il était né à Florence en 1265. Qu’importe cette anneé e cette ville? N’est-il pas de tous les temps et de tous les pays?
Queste ultime parole della illustre donna spiegano mirabilmente il mio concetto. Dante è moderno perchè contiene in sè quel carattere di universalità che lo fa cittadino di tutti i paesi e contemporaneo di tutte le età.
Ma vi sono tempi e vi sono luoghi in cui questo carattere brilla di maggiore luce, e dà al poeta che lo possede un’impronta quasi profetica e divina. Il nostro tempo, o signori, mi par di quelli: e la Divina Commedia non fu mai per l’Italia un libro apocalittico come ci appare al presente. Noi potremmo scrivere la storia de’ nostri giorni coi versi tolti al poema di Dante: tanto l’epoca nostra si collega a quei gloriosi primordii della civiltà italica, che si può dire, senza taccia di paradosso, l’età nostra raccogliere il frutto delle idee dantesche, ed esser chiamata a tradurre in fatto ciò che ai tempi di Dante non era che una sublime e profetica ispirazione del suo gran cuore.
Vi sono sementi armate di così duro involucro che hanno bisogno di lungo e secreto lavoro prima di svolgere il germe nascoso, prima di vincere gli ostacoli esterni che ne impediscono lo sviluppo: ma questi germi maturati con sì lento travaglio sono poi quelli che divengono piante robuste e ben temprate a vincere il rigore del clima e a lottare cogli aquiloni. Speriamo che il seme dantesco sia di codesta natura; e che la pianta che ora sorge alla luce, voglio dire l’Italia, metta profonde radici nel suolo, e spanda così largamente i suoi rami da compensarci del lungo aspettare e delle speranze tante volte deluse.
Evvi, o signori, fra l’epoca in cui nacque il nostro poeta e la nostra una mirabile analogia. Entrambe furono di quelle che si direbbono organiche: epoche di sociale rinnovamento, in cui l’anima umana affranta e stanca dalle terribili lotte del despotismo, sente il misterioso bisogno d’interrogar la natura e sollevare un lembo del velo che ricopre l’Iside eterna. Gli stessi problemi si propongono, si dicscutono, si risolvono: problemi che toccano da un lato alla vita delle diverse nazioni, e dall’altro ai diritti e ai destini dell’umanità tutta quanta.
Le vicende della letteratura dantesca sono una specie di termometro dello spirito umano. Quando gl’imitatori pedissequi del Petrarca empivano di lor cantilene tutte le Arcadie della Penisola, e il Berni e l’Ariosto canzonavano il terribile medio evo, credete pure che l’Italia sentiva i primi accessi di quella fatal letargia che l’assopì per tre secoli. Le lotte religiose che fervevano altrove, qui erano soppresse dai fulmini del Concilio di Trento e dalle armi collegate dell’Imperatore e del Papa. Il magnifico poema del Tasso, destinato a rianimare la fede cattolica quasi spenta, e a galvanizzare nei principi italiani l’entusiasmo che operò le crociate non ebbe che un successo poetico, poichè non era più la fede che potesse liberare l’Oriente dalla conquista ottomana. Più tardi sorgerebbero gl’interessi e la gelosia a rinnovar quella guerra, non già per ritogliere dalle mani degli infedeli la tomba di Cristo, ma per dividerne un’altra volta le spoglie.
Coll’ultimo anelito della libertà fiorentina era cessato in Italia ogni autonomia di vita politica. Non c’erano più nè ghibellini nè guelfi, antinomia troppo deplorata e non abbastanza compresa - c’erano spagnuoli ed austriaci. Il cuore d’Italia avea cessato di battere fra i più sacri gioghi dell’appennino ove la natura o la storia l’avea collocato.
La morale era nulla. Il moralista dell’epoca era Machiavello, il quale a reintegrare quando che fosse l’indipendenza politica del paese, non trovando più virtù nè principii, avea posta la sua fiducia ne’ principi, ai quali lasciava libera la scelta de’ mezzi purchè osassero mirare al fine per raggiungerlo. Sotto la cinica indifferenza che ostenta nelle sue opere, io sento lo sconforto d’un’anima desolata che non avea più fede nella giustizia umana e divina. La sua mente vedeva altra stella che la legge di una oscura e indomabile fatalità.
E l’arte? - L’arte era spirata con Michelangelo. L’arte non vive che al soffio fecondatore della libertà e della fede. Ora la fede e la libertà umana, queste due luci dell’anima, erano state spente dal tetro genio di Roma, dallo svolazzare dell’aquila austriaca.
Qual meraviglia che il poema di Dante fosse allora quasi dimenticato? Ei giacque per tre secoli nella tomba medesima ove era stata sepolta la libertà fiorentina. Allora poterono i critici sorgere e discutere impunemente, anzi fra i plausi delle accademie, quanti versi passabili si potessero razzolare nelle macerie della Divina Commedia, preparando il terreno ai Bettinelli e ai Labarpe che cantarono più tardi le esequie della musa di Dante.
Ma il sonno dell’Italia non doveva durare eterno. Ella si destò un giorno nella sua tomba, e trovandosi da canto il vecchio volume ch’era stato seppellito con essa, si pose a sfogliarlo, e a dicifrarne gli arcani caratteri. Poco docile come è sempre di sua natura alla voce de’ suoi maestri, come quella de’ suoi padroni, protestò contro la sentenza degli Accademici e dei Gesuiti, e cercò nel sacro volume la parola de’ suoi destini. Nutrita di quel forte e vitale alimento riprese ben presto gli antichi spiriti, e si rimise a meditare gli eterni problemi a cui dipende la vita de’ popoli e la indipendenza umana.
Fu allora, o signori, che Dante ridivenne di moda: fu allora che i più chiari ingegni d’Europa anzi del mondo cristiano interrogarono quelle pagine sacre, come contenessero a un tempo le memorie autentiche del passato, e i responsi infallibili dell’avvenire.
Il poema di Dante non è il racconto di vere e immaginate avventure come quello del Tasso; non è una storia pietosa che ha raggiunto il suo scopo quando abbia commosso il cuore e consolato lo spirito con leggiadre e decenti fantasie. Esso è il poema d’Italia: l’inferno, il purgatorio, il paradiso sono l’Italia, l’Italia del passato, l’Italia avvenire: è l’enciclopedia del mondo antico, colle aspirazioni d’un’anima divinatrice del mondo moderno.
Permettetemi di citare una splendida immagine che io trovo nel libro che scrisse intorno al bello un autore italiano troppo presto rapito alla scienza e alle lettere, uno scrittore che affogò nel mare tempestato della politica un raro tesoro d’eloquenza e un maschio intelletto che non aveva ancora compiuta la sua carriera. Parlo di Vincenzo Gioberti.
«Io non saprei meglio esprimere, dice egli parlando di Dante, la meravigliosa fecondità del divino poema, e il seggio che occupa negli annali dell’estetica ortodossa, che paragonandolo ad una pianta molto illustre nella storia naturale dell’India.
L’Asvatto o fico indiano, è un albero che durerebbe in perpetuo se violenza o estrinseci ostacoli non s’opponessero, e potrebbe bastare ad ombreggiare col suo fusto tutta la terra. I suoi rami s’innalzano a varii palchi, gittano certe radici aeree, le quali allungandosi a poco a poco, e giunte al suolo, se lo trovano propizio, vi penetrano e vi si abbarbicano. Ciascuna di quelle fila ingrossando diviene un nuovo tronco da cui rampollano altre messe e ramora con altre barbe penzolanti e producenti alla volta loro novella prole. Così il ceppo principale si va di mano in mano allargando e forma coll’andar de’ secoli una selva di vive e biancheggianti colonne ben fusate, altissime, diritte e coperte di verde e folta chioma quasi capitello che le incorona, sotto le cui volte frondose ed opache si ergono capanne, romitorii e tempietti, e riparano a moltitudine le famiglie degli animali e le comtive de’ viaggiatori che trovano sotto a quel rezzo un ricovero giocondo dalla cocente sferza del sole. Taluna di queste piante copre tutta un’isola o un’ampia distesa di campagna, e veduta da lungi, sembra un colle selvoso: ma quando il viandante accostato entra nei mistici recessi, gli par quasi di trovarsi fra quei colonnati e peristilii immensi che tuttavia si veggono a Persepoli e a Tebe. Tanto che, se non si sapesse che questa pianta è nativa dell’India donde i Baniani la recarono sulle spiaggie dell’Arabia, del Congo e del Mozambico, si potrebbe credere che avesse suggerita ai Faraoni l’idea delle loro sale ipostile, e ai re Elamiti il concetto di quelle reggie stupende dai cui avanzi oggi si chiama la città dell’antica Persia (Cil-minar).
Ecco, io dico, l’immagine della italiana Epopea, la quale non solo destò l’ingegno letterario e poetico delle nazioni moderne, ma partorì l’architettura, la pittura, la scultura e tutte le arti belle, come i rampolli dell’albero orientale dal suo ceppo primitivo.»
Ecco la selva selvaggia entro la quale, o signori, ho assunto il difficile incarico di guidarvi nel corso delle mie conferenze. A qual metodo ci atterremo noi? Vi entreremo di balzo e prenderemo ad esaminar parte a parte questo poema sterminato e molteplice? Ci contenteremo noi pure di sfiorarne i passi più belli e più celebri incorrendo nella taccia rimproverata ai mutilatori del grande affresco dantesco? Tale non può essere il mio pensiero, nè il vostro.
Io m’ingegnerò piuttosto di indagare il vero concetto di Dante intorno ai tre problemi ancora insoluti che lo rendono il vero poeta de’ nostri tempi. Sceglierò dall’Inferno, dal Purgatorio, dal Paradiso, e quando occorra dagli altri poemi di Dante e dalle sue opere in prosa italiane o latine i passi che valgono a colorire il suo secreto pensiero, politico, religioso, morale. Illustrerò, quando l’occasione mi si presenti, i passi più insigni della Divina Commedia coi passi analoghi dei poeti o più antichi o più recenti di lui. Da questo raffronto apparirà manifesto quel carattere di opportunità ch’io ritrovai nello studio di Dante, e per cui non ho esitato a definirlo il più moderno di tutti.
Permettetemi di rischiarare con qualche esempio il mio assunto. Fu disputato a lungo qual fosse nella vita attiva la parte politica abbracciata da Dante. Una lunga tradizione l’avea qualificato per ghibellino, siccome quello che nel poema e nel suo trattato De monarchia avea difeso la indipendenza del poter civile contro le usurpazioni de’ papi. Più tardi il Balbo, e dopo lui molti altri critici italiani rivendicarono la grande autorità di Dante alla parte de’ guelfi. Egli avea retto davvero il proprio paese siccome guelfo, come guelfo n’era stato sbandito, e sovente ghibellini furono coloro che gli fecero amaro l’esiglio. È da notare che al tempo in cui gl’illustratori della Divina Commedia si accapigliavano in siffatte contese, i tempi volgevano favorevoli all’iniziativa politica del Papato. Dante dunque doveva esser guelfo, e guelfo moderato, perchè si aspettava da Roma la parola iniziatrice dell’indipendenza italiana.
Ora, dopo gli ultimi disinganni, non sarà da meravigliare se qualche critico si levi a difendere lo spirito ghibellino di Dante. Anzi taluno, che ripone nel conflitto delle antinomie la legge storica delle nazioni, applaudirà al poeta poichè seppe essere a tempo opportuno e guelfo e ghibellino, or partigiano della politica de’ papi, or difensore del diritto assoluto de’ cesari.
No, signori, io non intendo fare violenza alla musa di Dante, e renderla complice di questa altalena politica in cui molti ripongono l’arte di governare e di vivere.
Dante fu più moderno de’ suoi chiosatori sia guelfi, sia ghibellini, od eclettici. Ammaestrato alla lunga e dolorosa esperienza, egli si pose al dissopra de’ due partiti che a vicenda conficcavano il ferro nel seno della madre comune. Fiorentino e guelfo, finchè sedé fra i priori, divenne italiano e unitario appena varcati i confini d’Italia; l’abbracciò collo sguardo possente, e concepì la speranza di renderla indipendente e signora de’ suoi destini. Perciò nella sua lettera ai fiorentini, pur pregandoli ad accettare l’autorità suprema del settimo Arrigo, non dimenticò di aggiungere, SERBANDO, COME LIBERI, IL REGGIMENTO. Voleva in una parola, siccome noi tutti vogliamo: unità nazionale e libertà di Comune.
Fu gloria per lui l’aver ripudiato i due partiti esclusivi e aversi fatta parte da se stesso, com’ei si fa dire nel Paradiso. Ora la sua dottrina è la dottrina di tutto un popolo: e qui nell’antico nido de’ Guelfi e de’ Ghibellini, il voto universale la proclama alla faccia del mondo con tanta pertinacia e unanimità di propositi, che l’Europa sospettosa sta per inclinarsi, suo malgrado, dinanzi alla maestà del fatto compiuto.
A quel modo che i Guelfi e i Ghibellini si sono disputati fra loro l’autorità dell’antico prior di Firenze, in una sfera più vasta, protestanti e cattolici vollero avere il gran filosofo e teologo antico siccome della propria dottrina.
«Voici un poéte (dice Ozanam, scrittore cattolico per eccellenza) qui parait dans un siècle tumultueux, qui marche comme enveloppé d’orages. Cependant derrière les ombres mouvantes de la vie, il a préssenti les réalites immuables. Conduit par la Raison et la Foi, il devance le temps, il pénètre dans le monde invisible, il s’en met en possession, il s’y établit ici-bas. De ces hauteurs, s’il laisse encore tomber ses regards sur les choses humaines il en découvre à la fois le principe et la fin, par conséquent il les mesure et les juge. Ses discours sont des enseignements qui subjuguent les convictions et qui inclinent les consciences en meme temps que par le rythme ils se fixent dans toutes les mémoires. C’est comme une prédication qui se fait parmi les multitudes ne se taisant jamais, qui les captivent en s’emparant de ce qui’il y a de plus fort en elles, l’intelligence et l’amour. C’est donc une poésie qui aux trois harmonies donte la beauté résulte en joint deux autres, l’harmonie de la pensée avec ce qui est, et l’harmonie de la parole avec ce qui doit etre, c’ést-à-dire la moralité. Enfin l’union de deux choses si rares, une philosophie poétique et populaire, et une poésie philosophique et vraiment sociale, consitue un èvénement mémorable qui indique un des plus hauts dégrés de puissance où l’esprit humain soit jamais parvenu.»
Vorrei ora potervi citare alcun brano dei recenti interpreti protestanti: ma il tempo e il luogo mi consigliano a passar oltre. Bastivi sapere che non v’è quasi concetto ardito e temerario nel mondo che non gli fosse attribuito. E che per ciò? Codesti giudicii apparentemente contrarii sono essi disonorevoli a Dante?
Avviene alcuna volta nella vita politica che alcun personaggio sia così superiore per senno e per probità alle passioni del tempo e agl’interessi effimeri de’ partiti, che tutti i voti concorrono ad investirlo di una libera rappresentanza.
Questo fenomeno onorevole per l’umana dignità non si è mai manifestato nel mondo con più splendore che nel caso presente. Eccovi un poeta che riunisce in suo favore il suffragio de’ cattolici più ortodossi, e quello dei critici più radicali. Eccovi un uomo che stimmatizza colle più fiere invettive il poter temporale de’ papi, e che due papi, Leon X e Giulio II, consacrano, per così dire, nel Vaticano per opera del pennello immortale dell’Urbinate. Egli è là nella famosa disputa del Sacramento coronato del suo lauro poetico fra i mitrati dottori del Cristianesimo. Espulso dalla patria per suggestione della Santa Sede, e per decreto della Repubblica di Firenze, eccolo commentato per decreto della medesima Repubblica, e con approvazione dell’autorità ecclesiastica di quel tempo non solo nelle pubbliche cattedre, ma nella chiesa di Santo Stefano di Firenze. E di là per bocca di Giovanni Boccaccio sonarono applauditi quei versi che appena oserei proferire dinanzi a voi.
Che conchiudere da tutto questo? Conchiudo che gli scrittori i quali, come il Tommaseo in Italia e l’Ozanam in Francia, difesero a spada tratta l’ortodossia di Dante, dissero il vero nel senso libero e largo che aveva ancora la dottrina cattolica nel secolo del poeta, quando l’avarizia de’ chiostri e le pie visioni de’ santi non avevano ancora ricevuto il suggello del Concilio di Trento. Ma non per questo si devono creder calunnie e sogni d’inferno i commentarii del Foscolo, del Rossetti e dei loro continuatori francesi, inglesi e tedeschi, i quali ritrovano nel gran poema la sanzione anticipata della Riforma che tentò di rompere il deplorato connubio della spada col pastorale.
Concludo che sopra le passioni teologiche che dividono il mondo vi è qualche cosa di più sacro, ed è la verità; - che sopra le lotte politiche che hanno insanguinato la terra e seguitano a insanguinarla, vi è qualche cosa di più inviolabile: la giustizia; - che sopra la discordanza delle opinioni umane e il conflitto delle ipotesi che scombinano il regno della intelligenza, vi è l’arte, l’arte emanazione del genio, figlia dell’istinto umano, vincolo che lega fra loro i tempi più lontani, i luoghi più remoti, i popoli più diversi. Arte, giustizia, verità; il bello, il buono, il vero, trinità razionale che sopravive ai dogmi antichi e nuovi, siccome quella che fu ed è la religione eterna del genere umano.
Ma discendiamo da queste altezze vertiginose ai campi fioriti dell’arte. Abbiam veduto come Dante sia nostro contemporaneo tanto in politica quanto in religione. Lo è egli altrettanto come poeta? - Come poeta, signori, egli è non solamente contemporaneo a’ presenti, ma sarà contemporaneo ai futuri, perchè scende in retta linea da Omero in tutto ciò che il cantor dell’Iliade ebbe di universale e di umano.
Mille poeti hanno cantato l’assedio e l’incendio di Troja. Ma le gesta dei re confederati e la ruina della famosa città non avrebbe per certo occupato tutti i tempi che corsero da Omero a noi, se l’Iliade e l’Odissea non altro contenessero che la caduta d’un regno e gli errori d’un uomo. Ma quei poemi contengono la pittura dei tempi eroici della Grecia e dell’Asia, e la base di quella religione che, nata in Oriente, pereginò nell’Europa e informò più tardi la civiltà greca e la italica. Ciò che fece immortale quel greco - che le muse lattar più che altro mai - fu la soluzione data o tentata dei grandi problemi del giusto e del vero, o nei limiti della vita mortale, o nelle immaginate regioni delle pene e dei premii futuri. L’intervento della divinità nelle lotte umane, il merito del valore e della virtù, il fato che incalza uomini e dèi, sottoponendoli a una medesima legge, i delitti dei pochi espiate dalle moltitudini, l’amor patrio grande ed onorato fin nei nemici, la donna, qui origine di sventura, là custode dell’idea religiosa, madre e consolazione dell’uomo, ecco le idee eterne che Omero raccolse e simboleggiò nell’Iliade e nell’Odissea. Ettore, Andromaca, Achille, Ulisse, Calcante e Cassandra, il sacrificatore e la vittima, ecco i titoli principali della gloria imperitura di Omero, ecco le fila onde i poeti greci e romani, tragici ed epici, hanno intessuto quelle ammirabili tele che il tempo rispetta e di cui s’onora l’umanità.
Così quando sulle ruine del mondo greco-latino la nuova età risorgeva bella di gioventù e di speranza, conservando delle antiche tradizioni quanto potea servire a rischiararla nel cammino dell’avvenire, un nuovo Omero sorgeva a formulare i tipi eterni che l’intelletto umano idoleggiava svegliandosi dal letargo della barbarie e dall’ebbrezza del sangue. Un gran fatto era interceduto fra Omero e Dante: la fondazione del cristianesimo. I grandi postulati che Omero consegnava ne’ suoi poemi erano stati riassunti dai dottori cristiani, che, svolgendo una nuova fase della religione d’Oriente, tentarono di spiegare l’origine e il destino dell’uomo. Iddio, il mondo, il presente e l’avvenire, il bene ed il male, il premio e la pena, ecco le immense questioni che la nuova religione ha tentato essa pure di sciogliere. Ma i teologi avevano parlato fino allora in una lingua sconosciuta alla moltitudine, onde il dogma poteva rassomigliarsi alla dottrina riposta che il sacerdote di Egitto celava sotto il velame di geroglifici misteriosi.
La Somma di San Tommaso d’Aquino ebbe in Dante un interprete ed un poeta. Alla lingua latina sottentrò l’italiano, alle scolorite ed aride forme della scolastica successe il sonoro ed elegante verso della Divina Commedia. Il velo del Santuario fu scisso, il profano vi penetrò con piede sicuro e rivelò al popolo i misteri del sacerdozio. Da quel punto la teologia cessò di essere una dottrina arcana, e dovette affrontare la luce della discussione e il sindacato della filosofia popolare. In questo senso Dante è benemerito del libero esame, e fu un vero rivelatore dell’idea cristiana. Il prete nell’ombra misteriosa del tempio poteva maledire al passato e scagliare a sua posta l’anatema a tutto ciò che non rispondesse all’interesse del sacerdozio - il poeta, nell’aperta e luminosa sommità dell’arte, abbracciò un orizzonte più esteso, riassunse i simboli del passato, cercò nel suo cuore la parola dell’avvenire; fu come quei pontefici di Roma che, anzichè distruggere i monumenti pagani e stritolare le statue de’ greci artefici, consacrarono gli uni e le altre sotto nomi mutati, e salvarono il Pantheon d’Agrippa ai proletari di Nazareth. Il simbolismo di Dante non è dunque contrario a quello d’Omero, ma lo riassume in un concetto più vasto e più vero. Il fato omerico è Dio: l’Erebo si risolve in tre regni: l’uomo non riposa nella tomba, ma progredisce per una serie di esistenze penose o liete secondo il merito della prima. Allo splendore di questa fiaccola la umanità si colora di nuova luce, l’uomo, la donna, il magistrato, il cittadino, la Chiesa, l’impero, la famiglia, la patria si presentano sotto nuovi aspetti improntati col sigillo d’una civiltà più libera e più feconda. Il demone e l’angelo esistono ancora come mediatori fra l’uomo e Dio: esiste l’inferno, ma assai diverso dalle cupe e spaventose visioni sognate nelle tebaidi e nei chiostri.
Tale è il mondo dell’arte uscito dalla mente dell’Alighieri e formulato da lui. Io v’invito a visitarne alcune regioni con me, se pure vi fidate alla mia debole scorta. Non mi dissimulo, o signori, la difficoltà dell’ufficio e gli ostacoli che incontreremo per via. Avrò anch’io a lottare colla lonza leggera, col leone e colla lupa che impedivano il poeta nel principio del suo pellegrinaggio: avrò anch’io a schermirmi dai démoni che guardano le bolge dantesche, dai giganti che coronano il fondo del pozzo infernale. Avrò anch’io a cercarmi un filo nel labirinto dei cieli concentrici dell’astronomo Tolomeo, e a disputar colla sfinge che propone i suoi misteriosi enimmi al viandante smarrito nella sua via. Ma come il poeta, che interpreto, ebbe il suo Virgilio e la sua Beatrice che confortavano le sue paure e risolvevano i suoi dubbii sempre rinascenti, non avrò anch’io qualche guida o qualche conforto all’ impresa? Non avrò anch’io qualche anima gentile che illumini la mia mente e parli una parola feconda all’anima mia?
Sì che l’avrò! M’è caparra di tanto la vostra indulgenza, la vostra cortesia, l’attenzione che mi prestaste fin qui. Parlare di Dante nella città di Dante, a me, straniero di loquela e d’ingegno, parrà superbia e presunzione soverchia. Molti di voi insegnano a me il culto debito a Dante, l’uso della favella, la dignità dell’esporre e del porgere.
Io non ho che una qualità che mi è propria e mi porrà forse in grado di aggiugnerne qualche fronda alla vivace corona di Dante: ho qualche cosa di comune con esso — l’esiglio più che decenne per le terre da lui visitate e ricordate in più luoghi del gran poema. L’esiglio! nome che comprende sconosciuti dolori e terribili insegnamenti. Oso dire che, siccome il poema di Dante sarebbe uscito molto diverso dalla sua mente ove ei fosse potuto vivere in patria onorato e tranquillo, così a ben comprendere la profondità di certi pensieri ed affetti, è necessario aver esulato con lui. Certo io devo all’esiglio, se ho potuto sviscerarne i sensi riposti e trovare la maniera più acconcia a farli comprendere altrui. E devo a te, mio vecchio amico e maestro, se ho potuto anche in terra straniera parlar la mia lingua, gustare e far gustare le ineffabili consolazioni dell’arte, far battere al nome d’Italia tanti cuori nobili e affettuosi, e risparmiare a me stesso, quello che a te non fu dato, l’amarezza del pane altrui e la fatica del salire e del discendere per l’altrui scale. Ed ora, reduce dall’esiglio, posso appena sentire la dolcezza della terra natia, e come a te da Ravenna, tuo ultimo asilo, non era concesso varcar l’Appennino e rivedere il tuo bel San Giovanni, così da Firenze io non posso ancora risalutare la mia bella e sventurata Venezia!
Ma questo almeno appresi da te — che non tutte le vie che riconducono in patria sono accettabili alle anime dignitose. E dalla tua lettera, nella quale rifiutavi il ritorno a prezzo d’una viltà, ho imparato a disprezzare le amnistie della tirannide e le facili transazioni coll’oppressore straniero.
Ma Venezia non mi sarà, spero, per sempre contesa, e questi studii che oggi incomincio sotto sì favorevoli auspicii nella patria di Dante, potrò deporti, quando che sia, come omaggio filiale sull’altare della patria infelice, alla cui redenzione darei volontieri non che l’ingegno, il sangue e la vita.
22 marzo 1860.
Dall’ Ongaro.