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52 MARIO RAPISARDI

per ostinato dispetto alla incredula età, ei si aggira, negligente degli altri e di sè, in una sfera interplanetare, dove il passato, il presente e l’avvenire si contorcono in danza spettrale, dove le idee più concrete, le forme più comuni ondeggiano in un’atmosfera grigia, s’inseguono, si sfigurano, si disperdono con l’incostanza, la mobilità e la vaporosità di nuvole cacciate dal vento e scarsamente colorate dai pallidi riflessi di un sole invernale. Il vero non è per lui che la prima pietra di un edificio ideale, l’imbarco, dirò così, da cui egli muove alla conquista del polo ignoto; il suo mondo principia appunto dove finisce la realtà; egli non ha la visione e la concezione del vero, non vive che nel sogno, non vede che l’invisibile. La sua pittura non è riproduzione della natura mortale: meglio che la vita, riproduce la morte; simboleggia le forze misteriose dell’essere, la nostalgica passione dell’Ideale, l’ossessione religiosa dell’Infinito.

La musica renderebbe, forse meglio che la pittura, la fluttuazione del suo spirito irrequieto e perplesso; egli, che di tutte le arti ha un sentimento squisito, non ha la pazienza necessaria a vincere la tecnica aridità della composizione musicale, si contenta di segnare sulla tela in poche linee e in semplici colori, le mistiche esaltazioni del suo cuore, le allucinazioni fantastiche del suo cervello. Quando però la tavolozza gli sembra insufficiente, la getta in un canto, e ricorre con geniale incostanza alla poesia, a cui sin da gio-