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PENSIERI E GIUDIZI 51

XVII.

aprile 1907.

I dipinti di Calcedonio Reina non sono fatti per chiamar gente, non hanno sfoggio di colori prosuntuosi, non audacia di atteggiamenti e di scorci, non lenocinio di nudità provocanti. La moltitudine ignara non si ferma a guardarli; i signori che han voglia di comprare passano indifferenti; i critici saputelli sogghignano. Ma le persone, a cui non è fatica il pensare, le anime gentili, a cui il rintocco di una campana al tramonto, la striscia luminosa di una stella filante, la scía che biancheggia dietro una barca, il batter di un’ala raminga dà un argomento di fantastiche visioni, si fermano volentieri innanzi alle strane figurazioni di questo singolarissimo artista, che s’ingegna di render su la tela gli evanescenti fantasmi di un mondo creato da lui, e nel quale egli vive in un continuo dormiveglia, in una beata incoscienza dello spazio e del tempo.

Che importa a lui della vita di tutti i giorni, della terra meschina, della natura mortale? Egli sa, o crede di sapere, che di là da questo miserevole avvicendarsi di forme caduche, di passioni feroci, di sogni bizzarri, di dolori e di tenebre indefinite, c’è la vita vera, la luce eterna, la sola indistruttibile realtà. Mistico, non di proposito, ma di temperamento, credente per sentimento ereditario, per educazione di famiglia e di scuola,