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[p. 171 modifica] straniero. Ora questo è un’Apologia di se stesso. Ed è mirabile com’egli che scriveva per se e non poteva andar dietro alle sofisticherie abbia trasportata come un Atlante l’eloquenza greca e latina tutta nel suo scritto, dove la vedete viva e tal quale, e tuttavia vi par nativa e non punto traslatizia, con una disinvoltura negli artifizi piú fini dell’eloquenza insegnati e praticati ugualmente dagli antichi, una padronanza, negligenza ec. cosí nello stile e condotta, ordine ec. interno, come nell’esterno, cioè la lingua ec. inaffettatissima e tutta italiana nella costruzione ec., quando lo stile e la composizione e i modi anche particolari e tutto è latino e greco. E ciò mentre gli altri miserabili cinquecentisti, volendo seguire la stessa eloquenza e maestri ec., come il Casa, facevano quelle miserie di composizione, di stile, di lingua affettatissima e piú latina che italiana. Onde i due soli eloquenti del cinquecento sono Lorenzino qui e il Tasso qua e là per tutte le sue opere, che ambedue parlano sempre di se, e il Tasso piú dov’è piú eloquente e bello e nobile ec., cioè nelle lettere che sono il suo [p. 172 modifica]meglio. La migliore orazione di Demostene è quella per la corona.


*   Gli ardiri rispetto a certi modi, epiteti, frasi, metafore, tanto commendati in poesia e anche nel resto della letteratura e tanto usati da Orazio, non sono bene spesso altro che un bell’uso di quel vago e in certo modo, quanto alla costruzione, irragionevole, che tanto è necessario al poeta. Come in Orazio, dove chiama mano di bronzo quella della necessità (ode alla fortuna), ch’è un’idea chiara, ma espressa vagamente (errantemente), cosí tirando l’epiteto come a caso a quello di cui gli avvien di parlare senza badare se gli convenga bene, cioè se le due idee che gli si affacciano, l’una sostantiva e l’altra di qualità ossia aggettiva, si possano cosí subito mettere insieme; come chi chiama duro il vento, perché difficilmente si rompe la sua piena quando se gli va incontro ec.